© Filippo Chinnici
(aggiornato il 4 aprile 2024)
Introduzione
Un popolo senza memoria storica è come un albero senza radici

Henry Hamilton Ness fu il fondatore delle Assemblee di Dio in Italia (ADI). Si tratta di un dato tanto evidente da risultare, per dirla con Lessing, quasi una verità di ragione. Nessuno storico degno di questo nome ha mai potuto metterlo seriamente in discussione, così come nessuno metterebbe in dubbio che Lutero sia stato il fondatore del Luteranesimo o Wesley del Metodismo. La documentazione al riguardo si è rivelata ampia, chiara e priva di ambiguità. Lo attestarono i pentecostali americani, lo affermò lo stesso Henry H. Ness — sebbene con una certa reticenza lessicale — e lo lasciò chiaramente intendere Roberto Bracco in un articolo pubblicato sul The Pentecostal Evangel (10 dicembre 1949, p. 10). Persino negli scritti ufficiali redatti nel tempo dalla stessa organizzazione pentecostale delle ADI si può ricavare, a una lettura attenta e non superficiale, la medesima conclusione.
A partire dal 2013, tuttavia, si è registrato un fenomeno quanto mai singolare: le Assemblee di Dio in Italia, che per decenni avevano attribuito grande rilievo alla narrazione delle proprie origini, hanno progressivamente smesso di valorizzarla, fino a relegare nell’ombra — seppur gradualmente — la figura centrale di Henry Hamilton Ness. In netta discontinuità rispetto al passato, la storia del Movimento Pentecostale non riceve più il ruolo prioritario che aveva assunto soprattutto tra gli anni Ottanta del Novecento e il primo decennio del XXI secolo. Voci attendibili mi hanno riferito persino che, presso l’Istituto Biblico Italiano (IBI) — la scuola di formazione teologica delle Assemblee di Dio in Italia — tale materia non è più oggetto di studio autonomo, ma è stata declassata a tematica secondaria, inserita nel quadro più ampio dei movimenti di risveglio del protestantesimo contemporaneo. Se tale notizia fosse confermata, ci troveremmo di fronte a una svolta epocale: nemmeno le facoltà teologiche non pentecostali hanno spinto, sinora, la marginalizzazione della disciplina fino a tal punto.
In questo modo, le ADI hanno finito per formare — non solo, com’è tristemente noto, degli analfabeti funzionali sotto il profilo biblico — ma anche degli analfabeti funzionali sotto il profilo storico. Eppure, a proposito di istituzioni teologiche, se si confronta il piano di studi dell’Istituto Biblico Italiano con quello del Northwest Bible Institute, fondato da Henry Ness nel 1934 (in particolare quello in vigore fino al 1960), si scopre un’incredibile somiglianza tra i due; sebbene, almeno ufficialmente, si sia cercato di riprodurre il piano formativo dell’IBTI britannico (International Bible Training College), dove furono istruiti e in parte indottrinati numerosi giovani pentecostali italiani del secondo dopoguerra — a cominciare dallo storico presidente ADI, Francesco Toppi.
Non è senza significato che tale situazione coincida, guarda caso, con la pubblicazione — nel dicembre del 2012 — del volume La Massoneria smascherata di Giacinto Butindaro. Un’opera che ha letteralmente scoperchiato il vaso di Pandora, gettando luce su connivenze inaspettate tra ambiti pentecostali e circuiti legati alla massoneria e ai servizi segreti. Per questo motivo, a dispetto del trattamento ingeneroso che i pentecostali italiani stanno oggi riservando alla memoria di Henry Hamilton Ness, ritengo che egli — insieme a Frank B. Gigliotti — meriterebbe un vero e proprio monumento, simbolico o reale, perché senza la sua azione fondativa le Assemblee di Dio in Italia non esisterebbero. Lo ribadisco: i pentecostali italiani dovrebbero erigere un monumento alla memoria di Henry H. Ness, non solo per aver lottato con determinazione in favore della libertà religiosa, ma anche per i cospicui aiuti economici fatti giungere dall’America (una sorta di «Piano Marshall evangelico»), per aver gettato le fondamenta e inaugurato la costruzione dell’organizzazione religiosa ADI, e infine per la svolta che impresse all’intero pentecostalismo italiano, anche al di là dell’orbita istituzionale ADI.
Le sue influenze, infatti, si sono riverberate ben oltre i confini denominazionali, incidendo in profondità sia sull’etica sia sulla teologia delle chiese pentecostali indipendenti, che per lungo tempo hanno mostrato una sorta di sudditanza psicologica nei confronti delle Assemblee di Dio. Vale la pena ricordare che furono proprio le ADI a organizzare, per prime, una scuola di formazione teologica pentecostale in Italia, e intere generazioni di bambini e giovani cresciuti nelle comunità evangeliche non affiliate alle ADI si sono comunque formati sui manuali della Scuola Domenicale — una sorta di «catechismo evangelico» — pubblicati, e tuttora pubblicati, proprio dalle Assemblee di Dio in Italia. Testi che, per inciso, altro non erano che traduzioni, talvolta adattate, dei manuali elaborati dalle Assemblies of God statunitensi. È in tal modo che gli americani, prima colonizzarono e poi esercitarono la loro influenza sull’intero pentecostalismo italiano, determinandone — e spesso deformandone — non solo l’impianto teologico, ma anche l’orientamento ecclesiologico.
1. Il binomio del complotto
Utilizzo il termine «binomio» perché, meglio di qualunque altro, descrive il legame simbiotico che univa Frank Bruno Gigliotti e Henry Hamilton Ness, i quali operarono in perfetta sinergia. Si potrebbe dire, senza esagerazione retorica, che furono «due corpi e una sola anima». Furono loro gli ideatori e i padri fondatori delle Assemblee di Dio in Italia. Gigliotti ne architettava le strutture ideologiche e strategiche; Ness, dal canto suo, gettava le fondamenta operative su cui si sarebbe edificata l’organizzazione. I loro collaboratori in Italia — U. Gorietti, R. Bracco, V. Federico e S. Anastasio — costruivano, implementando il progetto e, nel contempo, occultando agli altri pentecostali gli intrighi e le trame che si consumavano dietro le quinte. La coppia Gigliotti–Ness ordiva, con una lucidità quasi clinica e per conto di regie esterne, un vero e proprio complotto ai danni del pentecostalismo italiano nascente.
Henry Ness e Frank Gigliotti non solo si conoscevano a fondo, ma erano anche accomunati da una rete di legami e interessi sovrapposti: massonici, sionisti e di intelligence. Il primo orbitava, secondo fonti riservate, nell’ambiente del Mossad; il secondo, ben documentato, nella sfera d’influenza della CIA. Spesso operarono in maniera trasversale, in ambiti contigui e con obiettivi complementari. Hanno lavorato insieme, pianificato insieme, programmato insieme numerose azioni, e insieme — è il caso di ribadirlo — hanno dato vita alle Assemblee di Dio in Italia. Si può dunque affermare, senza tema di smentita, che le ADI rappresentano una loro creatura congiunta.
Occorre però sottolineare un aspetto essenziale: entrambi rispondevano a regie esterne al pentecostalismo, e anzi, esterne persino al cristianesimo istituzionale. Furono entrambi strateghi dotati di rara lucidità, lungimiranti e tecnicamente competenti; ma furono anche strumenti — consapevoli — di disegni che trascendevano la sfera confessionale. La nascita delle Assemblee di Dio in Italia segnò, di fatto, una svolta irreversibile nella storia del pentecostalismo italiano nel suo complesso, influenzando profondamente anche quei segmenti ecclesiali che, pur rimanendo esterni alla struttura delle ADI, ne subirono l’impronta storica e teologica.
2. Perché una biografia su Henry H. Ness?
Avendo militato per buona parte della mia vita all’interno di questa organizzazione — anche in qualità di pastore — e avendo avuto accesso privilegiato a una documentazione riservata, la pubblicazione del volume La Massoneria smascherata (dicembre 2012) non mi colse affatto di sorpresa, come potrebbero testimoniare alcuni colleghi ai quali, in via strettamente confidenziale, avevo già anticipato molte delle informazioni che poi sarebbero comparse nel libro di Giacinto Butindaro. E tuttavia, proprio quel volume risvegliò in me ricordi da tempo sopiti. Sulla scorta delle conoscenze pregresse, integrate da nuove acquisizioni offerte dall’opera di Butindaro, si riaccese in me il desiderio — direi quasi il bisogno interiore — di compiere ricerche approfondite.
Cominciai a frequentare biblioteche in Italia, negli Stati Uniti e in Portogallo; iniziai a mettermi sulle tracce di familiari e conoscenti di personaggi pentecostali ormai deceduti; mi recai di persona, talvolta attraversando oceani, per incontrarli, intervistarli e raccogliere testimonianze. Andavo in cerca di documenti, lettere, annotazioni, perfino frammenti apparentemente insignificanti, per ricostruire — passo dopo passo — la genealogia storica del pentecostalismo italiano. Fu un lavoro lungo, faticoso, dispendioso e meticoloso. Ma ne è valsa la pena, perché più approfondivo lo studio, più prendevo coscienza di quanto io stesso fossi stato ingannato — sistematicamente — proprio dal mondo pentecostale.
Questa fase di intensa ricerca durò alcuni anni, finché, provvidenzialmente, eventi successivi segnarono una svolta decisiva nella mia esistenza, conducendomi su un altro cammino. Da allora, queste tematiche hanno progressivamente cessato di attrarre il mio interesse. Oggi, posso dire di vivere una vita nuova, e di riconoscere con gratitudine come Dio abbia guidato ogni cosa, liberandomi dalle catene di un sistema religioso che per troppo tempo avevo servito. Non nutro più un interesse costante per queste vicende, o, per essere più precisi, alterno fasi di completo disinteresse a momenti — come quello attuale — di rinnovato interesse, seppur relativo, nei confronti di un ambito che ho conosciuto a fondo e al quale ho dedicato una porzione rilevante della mia esistenza.
Tutto è riemerso con forza alcuni giorni fa, quando mi è stato segnalato che G. Butindaro aveva pubblicato la trascrizione di una lettera inviata dal maestro venerabile David Green a Henry H. Ness. In quell’istante ho compreso che la storia del pentecostalismo italiano si apprestava a entrare in una nuova fase. Se la pubblicazione del 2012 aveva segnato l’inizio della «fase 2.0», oggi potremmo essere alle soglie della «fase 2.1», o forse già della «3.0». Ho infatti la netta impressione che Butindaro sia riuscito a intercettare uno di quei filoni profondi — nascosti nella miniera sterminata della storiografia pentecostale italiana — che potrebbero condurre a scoperte ancor più rilevanti.
Per inciso, chi osserva con attenzione avrà notato che la copia della lettera di David Green che pubblico in questo articolo non è derivata da quella divulgata da Butindaro: proviene da un originale che già possedevo e che, a quanto pare, possiede anche lui. Se, come ipotizzo, Butindaro ha realmente individuato uno di questi filoni, potrebbe presto imbattersi in altri rami ad esso connessi. E ciò potrebbe innescare un nuovo terremoto nella storia del pentecostalismo italiano, con effetti ben più dirompenti rispetto a quelli registrati nel 2012 — effetti che, con ogni probabilità, assumeranno una portata anche internazionale.
Il motivo è semplice e inquietante: dire che l’humus in cui nacquero le Assemblee di Dio in Italia — e con esse gran parte del pentecostalismo italiano del dopoguerra — fosse «inquinato» è un eufemismo. La realtà, temo, è ben peggiore. E ciò che potrebbe emergere nei prossimi anni non è affatto paragonabile a quanto è stato pubblicato sinora. È in questa prospettiva che la vicenda storica del pentecostalismo italiano assume una nuova, drammatica attualità. Per questo ho deciso di rompere il silenzio con il presente articolo, che tuttavia manterrà volutamente un taglio generico: più che offrire rivelazioni definitive, intende fornire coordinate utili a orientare chi voglia proseguire la ricerca. A spingermi verso questa scelta è stata anche la lettura di alcuni commenti comparsi sotto un post Facebook del prof. Giovanni Rinaldi, in cui — mio malgrado — venivo pubblicamente menzionato.
È la prima volta che affronto pubblicamente questi nodi storici, e non so se vi ritornerò in futuro. Tuttavia, mi auguro sinceramente che queste riflessioni possano stimolare un’autentica ricerca della verità storica sul pentecostalismo italiano, che, a mio avviso, costituisce la narrazione più avvincente fra tutte le storie pentecostali del mondo. Se richiesto, sono pronto a offrire il mio contributo in ogni sede opportuna, producendo tutta la documentazione necessaria a comprovare le affermazioni qui esposte.
La storia del pentecostalismo italiano è, in sé, una bella storia. È una vicenda intensa, coinvolgente, e confesso — con una certa presunzione fondata sull’esperienza — che neppure i massimi esponenti delle Assemblee di Dio in Italia la conoscono davvero, come si può desumere dai volumi da loro pubblicati, nei quali si ripete, pressoché invariata, una narrazione agiografica ormai logora. Quella pentecostale è invece una storia costellata di inganni, sotterfugi, tradimenti, manovre oscure e interferenze internazionali. È una trama fatta di complotti, piena di colpi di scena repentini e inattesi. Non esiste, al mondo, un’altra storia pentecostale comparabile a quella italiana. Forse solo le esperienze spagnola, portoghese e greca si avvicinano in parte, ma solo in parte.
È comunque un dato incontestabile che i pentecostali italiani, nel dopoguerra, siano stati a loro volta raggirati e manipolati. E in questa grande illusione, un ruolo cruciale fu ricoperto da Henry H. Ness e Frank B. Gigliotti, assieme a coloro che, nell’ombra, ne guidavano le strategie. A suggerirlo sono anche gli scritti di Roberto Bracco, e più recentemente le testimonianze del pastore Giovanni Tramentozzi. Le Assemblee di Dio in Italia sono nate in seno all’inganno, e hanno purtroppo perseverato in un’evoluzione peggiorativa.
Sia chiaro, dunque, una volta per tutte: le Assemblee di Dio in Italia rappresentano, sotto il profilo storico e teologico, un tradimento radicale delle proprie origini, incarnate da figure come Luigi Francescon, Giacomo Lombardi, Pietro Ottolini e altri padri fondatori dimenticati. La fedeltà alle radici è stata abbandonata, e ciò che resta è un sistema costruito sull’occultamento della verità.
3. La lettera del Maestro Venerabile David A. Green
Eccoci giunti finalmente alla lettera di David A. Green, già Maestro Venerabile della Ionic Lodge n. 90 del Rito Scozzese Antico ed Accettato, con sede a Seattle, indirizzata a Henry Hamilton Ness (1894–1970). Di questo documento, mi limito a segnalare alcuni elementi essenziali, lasciando ai ricercatori il compito di condurre ulteriori approfondimenti e di valutarne il significato nel quadro più ampio delle dinamiche storico-religiose dell’epoca.
- L’intestazione merita una prima osservazione. Il nome della loggia, nel linguaggio massonico, è tutt’altro che casuale. Esso veicola una simbologia che spesso trascende il livello superficiale per alludere a funzioni specifiche. In questo caso, leggiamo: «Ionico». Perché tale loggia scelse questo nome? Qual è il significato implicito di questa denominazione? La risposta, lungi dall’essere meramente formale, può offrire chiavi interpretative preziose per comprendere la funzione, il ruolo e la posizione ideologica della loggia all’interno del panorama massonico statunitense del secondo dopoguerra.
- La data costituisce un ulteriore elemento degno di nota. Il documento è datato 9 settembre 1949, ovvero 9.9.1949. Anche la numerologia, come noto, gioca un ruolo importante nella simbologia massonica. La ripetizione del numero nove — tre volte — potrebbe non essere priva di significato esoterico, specie in un contesto in cui ogni dettaglio simbolico è potenzialmente codificato.
- Il contenuto della lettera appare altrettanto significativo. In essa si fa riferimento a un discorso pronunciato da Henry H. Ness in occasione di un incontro massonico, al quale presero parte numerosi membri della fratellanza, inclusi quindici «Maestri Venerabili». Quale fu il contenuto effettivo di quel discorso? Quali idee vi espresse Ness per suscitare un tale livello di consenso? La questione resta aperta e merita ulteriore esplorazione.
- Particolarmente eloquenti risultano i saluti con cui David A. Green si rivolge al destinatario: «Noi ti salutiamo come un Fratello». L’espressione impiega un lessico chiaramente massonico, come attestato anche nel manuale rituale The Masonic Text-Book of Tennessee, alle pagine 49 e 52. Ma vi è di più. Green scrive testualmente: «Noi ti salutiamo come un Fratello perché tu hai la Massoneria nel cuore, e i pensieri che ci hai lasciato sono totalmente in armonia con il credo Massonico della ‘Paternità di Dio e della Fratellanza dell’Uomo’».
Si tratta di un’affermazione estremamente densa, sia sul piano ideologico che su quello dottrinale. Essa richiama concetti chiave della teologia massonica, in particolare quell’umanesimo spirituale che ha sempre rivendicato la paternità universale di Dio e la fratellanza ontologica del genere umano — un principio che, pur suonando nobile, entra in tensione con la visione cristocentrica della redenzione propria del cristianesimo evangelico. Il lettore potrà trovare una riflessione più ampia su queste implicazioni teologiche e simboliche nella sezione finale di questo articolo, tra gli approfondimenti e gli articoli correlati.

HENRY HAMILTON NESS
(Cenni biografici inediti)
« Qualsiasi evento storico, per quanto nefasto possa essere, è sempre posto su di una via che porta al positivo, ha sempre un significato costruttivo» –
Come ho già avuto modo di osservare, alcuni cenni biografici relativi alla figura di Henry Hamilton Ness si possono rintracciare in vari contributi pubblici: negli articoli redatti da Francesco Toppi, storico presidente delle chiese ADI; nel volume di Giacinto Butindaro, La Massoneria smascherata; nonché in altri scritti apparsi su questo stesso blog. Tuttavia, gran parte della storiografia pentecostale cosiddetta ufficiale si è resa responsabile di una sistematica mistificazione della sua figura. I principali «libri» di storia del movimento, infatti, o omettono completamente il suo nome, oppure lo citano soltanto en passant — come se Henry Ness non avesse avuto alcun ruolo rilevante nella vicenda pentecostale italiana. Una rimozione tanto strategica quanto ingiustificabile.
Eppure, Ness occupa una posizione cardinale nella storia del pentecostalismo italiano, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Basterebbe solo questa consapevolezza a smentire l’intera impalcatura narrativa di certa memorialistica autoreferenziale. La lista dei volumi che perpetuano tale mistificazione sarebbe, in effetti, assai lunga — praticamente esaustiva dell’intero panorama editoriale di area ADI.
In questo contesto, ha destato un certo stupore l’interesse mostrato, seppur tardivamente, dalle Assemblies of God USA, le quali, nel 2018 — a molti decenni di distanza dalla morte di Ness, avvenuta per suicidio — hanno pubblicato una biografia improvvisata sul sito del Flower Pentecostal Heritage Center. Una scelta che ha colto di sorpresa non pochi osservatori, tanto più considerando che, al momento della sua scomparsa, le stesse Assemblies gli avevano dedicato appena poche righe sul The Pentecostal Evangel. In Italia, per contro, la notizia della sua morte venne completamente taciuta: nessuna nota ufficiale, nessun ricordo, nessuna parola. Un silenzio carico di significato.
Appare alquanto singolare che, dopo circa cinquant’anni di silenzio, le Assemblies of God USA si siano improvvisamente ricordate di Henry H. Ness. O forse non è affatto strano, se si considera il calibro del personaggio, l’influenza che egli ha esercitato e l’interesse crescente che — giustamente — sta suscitando oggi in Italia. Non ripeterò qui ciò che altri hanno già scritto, né quanto ho già esposto su questo stesso blog. Mi limiterò piuttosto a riportare alcuni fatti inediti che potrebbero rivelarsi preziosi per quanti — studiosi autentici — intendano approfondire con serietà la storia del pentecostalismo italiano. Mi rivolgo, è bene precisarlo, a coloro che cercano la vera verità storica; a chi possiede metodo, rigore, competenza e spirito critico. Non certo a quella genterèlla (spesso interna al mondo pentecostale) che si autoproclama «storica» senza aver mai prodotto nulla che giustifichi tale pretesa, limitandosi a ripetere — come pappagalli — le solite narrazioni artefatte, stantie, impolverate.
È in questo che si rivela la differenza sostanziale tra chi ha una laurea in storia e chi è davvero uno storico. Il primo si limita a fare il cronista, riportando opinioni altrui. Il secondo, invece, ricerca, indaga, scopre, analizza, mette in relazione le fonti, inserisce ogni elemento nel contesto appropriato e — soprattutto — porta alla luce fatti nuovi, in grado di innescare inevitabili revisioni storiografiche. Nel caso specifico della storiografia pentecostale italiana, non pochi autori appartengono alla prima categoria. Li definisco, senza esitazione, «genterèlla», non solo per la loro malafede, ma anche per l’incompetenza palese che tentano di mascherare dietro blasonate «riconoscenze» prive di reale valore. Si tratta, per lo più, di titoli assegnati in ambienti opachi, frutto di appartenenze e scambi di favore, spesso riconducibili a circuiti massonici ben noti a chi conosce certe dinamiche ecclesiastiche.
Un caso emblematico è quello di Alessandro Iovino, pentecostale da quattro generazioni, che ama presentarsi come «esperto di storia pentecostale» pur non avendo mai prodotto nulla di significativo o originale. I suoi contributi, scarsi e mistificatori, ne rivelano l’inadeguatezza. Non è un mistero come funzionino certi ambienti: si incensano vicendevolmente, si celebrano tra di loro perché portano avanti una medesima agenda, operano in vista dello stesso fine e «costruiscono» — è proprio il caso di dirlo — nella medesima direzione: quella massonica. E si definiscono «liberi muratori», sebbene la realtà dimostri che sono tutto fuorché liberi. Ci troviamo, come spesso accade, non in un contesto di meritocrazia, bensì di pura lobbycrazia.
Qualcuno potrebbe dunque domandarsi perché abbia scelto proprio ora di intervenire pubblicamente. In primo luogo, perché sono stato recentemente chiamato in causa sui social media; in secondo luogo, perché i tempi — forse — cominciano a maturare per una presa di coscienza più ampia. Ma, soprattutto, perché desidero offrire spunti e indicazioni ai ricercatori su quali direzioni esplorare, su dove orientare le indagini documentarie e storiche. Per ragioni didattiche, e anche per favorire la memorizzazione e la sistematizzazione dei concetti, ho deciso di suddividere questi cenni biografici su Henry H. Ness in tredici brevi paragrafi, con l’auspicio che possano costituire una base solida per futuri approfondimenti seri.
1. Un fervente sionista
Henry Hamilton Ness fu un fervente sionista di origine ebraica. Si tratta della prima verità inedita che, fino ad oggi, non era mai stata esplicitamente dichiarata. A Seattle, dove egli risiedeva e operava, vi era — e vi è tuttora — una numerosa e ben strutturata comunità ebraica, della quale faceva parte anche David A. Green, il Maestro Venerabile della Ionic Lodge n. 90 del Rito Scozzese Antico ed Accettato, autore della lettera che abbiamo analizzato nel paragrafo precedente.
Una delle prove documentali di tale affiliazione si rintraccia nelle pagine del The Transcript, quotidiano ebraico locale. Nella sua edizione del 28 febbraio 1949 si menziona il nome di Henry H. Ness in un contesto chiaramente legato alla comunità israelitica. Ma ancor più significativa è l’edizione del 26 luglio 1948 (vol. XXV, n. 43), nella quale Ness viene esplicitamente definito un «fervente sionista». Il lessico impiegato non lascia spazio a interpretazioni ambigue, e testimonia un’identità ideologica ben radicata e pubblicamente riconosciuta.
Qualche anno più tardi, quando il governatore dello Stato di Washington, Arthur B. Langlie, lo nominerà direttore del Department of Institutions — ossia capo dell’amministrazione penitenziaria statale (di cui parleremo in seguito) — la sua nomina susciterà non poche reazioni. Tra esse spicca quella del reverendo Alexander Schiffner, pastore del Bethel Temple, che indirizzerà una lettera formale di protesta al governatore. In essa si legge una dichiarazione tanto netta quanto controversa:
Il dottor Ness è un autoproclamato sionista. Il sionismo è anti-cristiano poiché è un movimento globalista che mira a stabilire un governo mondiale sotto il controllo dei sionisti ebrei
[nota: – forse avrebbe fatto meglio a specificare che i “sionisti aschenaziti” non sono considerati Giudei – uso questo termine con cognizione rispetto a “ebreo” -, dagli altri sottogruppi come i sefarditi].
Al di là del giudizio espresso, la dichiarazione attesta con chiarezza quanto l’identità sionista di Ness fosse nota negli ambienti religiosi americani dell’epoca, suscitando reazioni anche fortemente polemiche. Questo elemento, lungi dall’essere secondario, offre una chiave interpretativa rilevante per comprendere molte delle sue scelte pubbliche, politiche e religiose, sia negli Stati Uniti sia nel contesto italiano.
Viaggi finanziati da logge ebraico-massoniche
È proprio in virtù di questo profilo ideologico che tra i finanziatori dei viaggi internazionali di Henry H. Ness si annoverano anche diverse logge massoniche di matrice ebraica.
Mentre dunque Ness si recava a Roma — ripetiamolo: con fondi provenienti da ambienti massonici ebraici, e per ragioni riconducibili alla geopolitica internazionale del dopoguerra — utilizzava come copertura pubblica una serie di conferenze bibliche rivolte ai conduttori pentecostali italiani. Il tema di tali incontri era, emblematicamente, «L’organizzazione delle chiese».
Ma si trattava, con ogni evidenza, di una strategia mirata. L’obiettivo era quello di recidere le radici originarie del pentecostalismo italiano, fondate su una visione ecclesiologica congregazionalista e antidenominazionale, profondamente incarnata nelle figure dei pionieri del movimento — Luigi Francescon, Giacomo Lombardi, Pietro Ottolini — e, più a monte, nel pensiero di William H. Durham. Ness intendeva sradicare tale modello, giudicato ormai superato o d’intralcio, per trapiantare quei semi spirituali nel terreno ben più strutturato dell’organizzazione che egli stesso si accingeva a costituire, vale a dire le Assemblee di Dio in Italia.
Parallelamente a questi incontri teologici, che fungevano da legittimazione religiosa delle sue visite, Ness intratteneva incontri di ben altro tenore. Tra una conferenza e l’altra, egli si recava in Vaticano per incontri riservati con Papa Pio XII, di cui tenne all’oscuro la stragrande maggioranza dei pentecostali italiani[nota 1]. Pensare che Henry H. Ness si sia incontrato col Pontefice unicamente per discutere di questioni interne al movimento pentecostale è, a ben vedere, un atto di profonda ingenuità. Per quanto possa apparire difficile da accettare a molti pentecostali, per Ness la questione pentecostale costituiva solo un aspetto marginale dei suoi obiettivi. Le ragioni reali dei suoi viaggi, infatti, rispondevano a logiche ben più complesse e ramificate, legate a interessi transnazionali che travalicavano di gran lunga il perimetro ecclesiale.
Non a caso, durante la sua permanenza in Italia, Ness non si limitò a incontrare il Papa: ebbe contatti anche con altre figure di rilievo, il cui profilo sarà oggetto di approfondimento nei paragrafi seguenti.
Incontri paralleli: il Papa, il Rabbino, l’ambasciata…
È singolare — e al tempo stesso rivelatore — il fatto che i pentecostali italiani non siano mai stati messi a conoscenza dell’incontro avvenuto tra Henry H. Ness e Papa Pio XII, se non a partire dal 2012, anno in cui la notizia fu finalmente divulgata grazie al volume La Massoneria smascherata di Giacinto Butindaro. Fu proprio Butindaro il primo a rendere pubblica questa informazione in Italia, rompendo un silenzio che durava da oltre sessant’anni.
Tuttavia, oggi è giunto il momento di andare oltre, e compiere qualche passo ulteriore nella ricostruzione di quei giorni romani. La verità, infatti, è che Ness non incontrò solo il Papa. In quello stesso periodo, mentre soggiornava a Roma, ebbe colloqui riservati anche con David(e) Prato, all’epoca rabbino maggiore presso la sinagoga della capitale. E non solo con lui: i suoi incontri si estesero a numerosi altri personaggi, appartenenti a contesti religiosi, diplomatici e politici di alto profilo.
Molti di questi colloqui avvenivano presso l’albergo in cui alloggiava — del quale parleremo nel dettaglio in uno dei paragrafi successivi — ma in più di un’occasione si svolsero all’interno dell’ambasciata americana di via Veneto, un luogo-chiave del potere statunitense nell’Italia del secondo dopoguerra.
È importante ricordare che anche Davide Prato, al pari di Henry H. Ness, era un fervente sionista e aderiva alla potente loggia massonica B’nai B’rith, storicamente legata all’ebraismo progressista e al progetto sionista internazionale.
Non è questa la sede per soffermarsi sulla distinzione tra «sionismo» e «giudaismo» — distinzione ben nota agli studiosi di storia delle religioni e degli equilibri geopolitici del XX secolo. Basti qui rilevare che l’intreccio tra identità religiosa, affiliazione massonica e impegno politico internazionale rappresenta una chiave interpretativa imprescindibile per comprendere la rete di relazioni che ruotava attorno alla figura di Henry H. Ness.
Nel 1938, con l’entrata in vigore delle leggi razziali, il regime fascista diede avvio alla propria politica antisemita. Fu in quel contesto che David Prato — allora rabbino capo di Roma — fu costretto a lasciare l’Italia e a rifugiarsi in quella che allora era conosciuta come Palestina, sotto mandato britannico. Lo Stato d’Israele, com’è noto, sarebbe stato proclamato solo dieci anni più tardi, nel 1948. Prato rientrò in Italia nel 1945, alla fine del secondo conflitto mondiale, e riprese immediatamente un ruolo di primo piano nella vita religiosa, politica e culturale della comunità ebraica italiana.
Tra le molteplici attività che svolgeva, il rabbino David Prato ricopriva anche un ruolo strategico all’interno dell’amministrazione del Fondo Nazionale Ebraico — in ebraico קרן קימת לישראל, Keren Kayemet LeYisrael, spesso abbreviato in KKL e pronunciato KaKal. Questo fondo, di cui qui non approfondiremo la natura e la struttura gestionale (che il lettore potrà agevolmente ricostruire con una ricerca autonoma), costituiva una delle principali leve economico-politiche del sionismo internazionale nel processo di insediamento territoriale e di costruzione statale.
Ciò che qui preme sottolineare è un dato tanto essenziale quanto taciuto: Henry H. Ness e David Prato collaboravano entrambi con i medesimi circuiti di intelligence, condividendo obiettivi e operatività. Il fatto che il Mossad — ufficialmente fondato nel 1949 — fosse già attivo in forma non ufficiale negli anni precedenti è oggi ampiamente riconosciuto da storici e analisti della sicurezza. La collaborazione tra agenti e referenti «non ufficiali» era una prassi consolidata nelle fasi preistituzionali dei servizi israeliani.
E, non a caso, tra i principali sostenitori — o, per usare un termine più aderente alla realtà, finanziatori strategici — del nascente Mossad, troviamo proprio la famiglia Rockefeller. Una dinastia il cui sostegno economico, politico e ideologico ad Henry H. Ness sarà oggetto di analisi dettagliata in una mia prossima pubblicazione. Il fatto che i Rockefeller abbiano appoggiato sia Ness sia il Mossad non può, a questo punto, essere considerato una coincidenza innocente. Piuttosto, si delinea un intreccio coerente, che unisce in una rete invisibile la finanza internazionale, i movimenti religiosi emergenti e le strategie d’intelligence del secondo dopoguerra.
Ness o Nesh? Alias, identità multiple e strategie di copertura
Per comprendere il fermento di relazioni internazionali che accompagnò Henry H. Ness nei suoi viaggi a Roma tra il 1946 e il 1948, occorre interrogarsi sul ruolo che ebbe — intenzionalmente — il plurilinguismo del suo nome e l’ambiguità che esso seppe generare nei contesti più sensibili. Un dettaglio solo in apparenza secondario, ma in realtà profondamente rivelatore, si trova in L’Osservatore Romano del 9 agosto 1947, dove si riporta l’udienza privata tra Papa Pio XII e Henry H. Ness. Il nome del pastore, però, viene trascritto come «Nesh».
Questa variazione non è un errore tipografico, bensì un segnale linguistico criptico, perfettamente comprensibile a chi conosca i codici della scrittura ebraica. In ebraico, infatti, la grafia consonantica נ”ש può essere letta come Nes, Nesh o Ness, a seconda di minime variazioni nei segni diacritici applicati. Questi segni, chiamati nikkud (נִקּוּד), costituiscono il sistema vocalico dell’ebraico, utilizzato nei testi masoretici per integrare alle consonanti le indicazioni fonetiche.
Nel caso specifico della lettera ש, esistono due punti distintivi che ne determinano la pronuncia:
- Il puntino a destra trasforma la lettera in שׁ (Shin), da cui la lettura «Nesh»;
- Il puntino a sinistra ne fa שׂ (Sin), da cui «Nes»;
- Quando al centro della lettera compare un dagesh forte (un altro tipo di nikkud), si ha il raddoppiamento consonantico, da cui «Ness».
Come si vede, è un solo puntino a determinare la trasformazione fonetica del nome. E proprio questa ambiguità calibrata è uno dei tratti tipici dell’onomastica operativa usata nei contesti diplomatici e di intelligence.
Come dimostrano numerosi studi sull’intelligence del periodo bellico e postbellico, l’adozione di alias parziali, identità multiple, e varianti nominali adattive costituiva una prassi sistematica nei contesti di operazioni segrete e infiltrazione diplomatica. L’Operazione FORTITUDE, documentata dal National WWII Museum, mostra come gli agenti doppi impiegati nei teatri europei — tra cui spiccano figure come Juan Pujol García (Garbo) — assumessero identità polimorfe a seconda dell’interlocutore, della lingua e dell’ambiente sociale. Non si trattava semplicemente di cambiare nome, ma di modularne la forma, la pronuncia o persino l’ortografia per attivare accessi mirati a reti specifiche.
Allo stesso modo, recenti studi nel campo delle scienze umane digitali e della critica alla sorveglianza — come quelli presentati in Surveillance and the Critical Digital Humanities — hanno messo in evidenza come la manipolazione sottile dell’identità linguistica (incluse le micro-variazioni fonetiche e onomastiche) fosse e rimanga una strategia fondamentale per costruire una persona pubblica fluida, adattabile e semanticamente ambigua.
Nel caso di Henry H. Ness, tutto ciò trova una corrispondenza pratica e documentabile. Il nome «Nesh» compariva sistematicamente nei registri degli alberghi in cui soggiornava a Roma e figurava perfino sui suoi bigliettini da visita personali, stampati e distribuiti con intenzione. Un dettaglio apparentemente marginale, ma che rivela molto più di quanto si possa immaginare: non si trattava di un semplice pseudonimo, ma di un alias calibrato, di un passaggio semantico discreto ma deliberato, concepito per distinguere — e al contempo connettere — le sue attività ecclesiali, diplomatiche e geopolitiche. Un espediente sottile ma rivelatore, che ci introduce sempre più nel cuore delle dinamiche nascoste — e tutt’altro che ingenue — che accompagnarono la nascita delle Assemblee di Dio in Italia.
Il gioco tra «Ness» e «Nesh» non è dunque un mero caso di variazione linguistica, bensì una maschera fonetica strategica, un codice di accesso multilivello, tipico delle figure liminali che operano simultaneamente su più fronti. Attraverso una variazione apparentemente insignificante, Henry H. Ness si rendeva riconoscibile — o meglio, decifrabile — in ambienti differenti: dalle ambasciate ai circoli sionisti, dalle logge massoniche ai palazzi vaticani. È in quel minuscolo punto — a destra, a sinistra o al centro della lettera ש — che si cela una biografia bifronte, e forse anche la chiave interpretativa di una delle operazioni religiose e culturali più rilevanti del dopoguerra italiano.
A conferma di ciò, si segnala che presso l’hotel romano dove era solito alloggiare durante i suoi viaggi in Italia, Ness si registrava sempre con il cognome «Nesh», coerentemente con l’identità che intendeva assumere in quei contesti. Un dato non trascurabile, perché proprio quell’hotel — come vedremo nel prossimo paragrafo — fu luogo strategico di incontri, passaggi riservati e scambi operativi.
2. L’Hotel Inghilterra di Roma
È documentato anche l’hotel romano in cui Henry H. Ness era solito alloggiare, così come i ristoranti che frequentava durante i suoi soggiorni in Italia. Tra questi, figura un locale napoletano che egli prediligeva in modo particolare: il ristorante «Gangiani», situato in via Francesco Baracca 3, a Napoli. La città partenopea occupava un posto speciale nella memoria del Nostro, non solo per la calorosa accoglienza ricevuta, ma anche per via di una profonda amicizia con alcuni piccoli imprenditori calzolai — datori di lavoro di Umberto N. Gorietti — che gli ricordavano le sue origini familiari: anche il padre di Henry Ness, infatti, era un calzolaio. Su questo dettaglio torneremo più avanti.
A Roma, Ness soggiornava presso l’Hotel Inghilterra, in via Bocca di Leone 14, nel cuore del centro storico della Capitale. La posizione era non soltanto prestigiosa, ma strategicamente significativa: a pochi passi da Piazza di Spagna, da via Condotti, da Piazza del Popolo, nonché dal Pantheon e dal Pincio. L’hotel sorgeva inoltre nelle immediate vicinanze dell’ambasciata statunitense di via Vittorio Veneto e di via Sicilia — una strada che già allora era considerata zona sensibile, frequentata da logge massoniche e uffici d’intelligence celati dietro facciate istituzionali o commerciali.
Un altro elemento di rilievo, spesso ignorato dalla storiografia ufficiale, riguarda la singolare prossimità tra l’albergo scelto da Ness e l’abitazione romana di Umberto Nello Gorietti, situata in via Frattina 35. La distanza tra i due edifici era di appena un centinaio di metri. Quell’appartamento, oltre ad essere la residenza di Gorietti, fu anche — come attestato dalla rivista Cristiani Oggi (1–31 agosto 1997, p. 7) — la prima sede legale delle Assemblee di Dio in Italia. Non è azzardato ritenere che tale vicinanza, topografica e funzionale, fosse tutt’altro che casuale: essa suggerisce una rete già consolidata di rapporti, connessioni e passaggi strategici.
Quanto alla figura di Salvatore Anastasio, commerciante di scarpe e superiore gerarchico di Gorietti, è lecito affermare che egli agisse come presidente ombra, esercitando un’influenza diretta ma discreta, senza mai esporsi in prima persona. Era lui a dettare le linee guida da dietro le quinte, mentre Gorietti, più giovane e più malleabile, ne assumeva formalmente la rappresentanza. Si comprenderà meglio, nei paragrafi seguenti, perché Anastasio possa essere ritenuto a pieno titolo il vero primo presidente delle Assemblee di Dio in Italia. Anastasio doveva rispondere a Henry H. Ness.
Alla luce della prossimità fisica e della collaborazione strategica tra Henry H. Ness e Umberto N. Gorietti, è lecito affermare che i due si vedevano con regolarità quotidiana e che prendevano parte insieme alle conferenze teologiche — allora denominate «Conversazioni bibliche» — il cui tema centrale, significativamente, era: «Il governo della chiesa e l’organizzazione» (Risveglio Pentecostale, Anno II, 1947, n. 1, p. 11; The Pentecostal Evangel, 11 ottobre 1947, p. 11). La scelta del tema non fu affatto casuale: essa rispondeva a una precisa agenda, ovvero la costituzione di un’organizzazione religiosa stabile, che avrebbe poi assunto il nome di «Assemblee di Dio in Italia».
Ma per realizzare questo disegno, occorreva prima di tutto smantellare l’antidenominazionalismo originario che aveva da sempre contraddistinto il pentecostalismo italiano. L’ostacolo più radicato non era di tipo strutturale, bensì ideologico: la tradizione ecclesiale di Luigi Francescon, Giacomo Lombardi, Pietro Ottolini e altri pionieri, si fondava infatti su una concezione fortemente congregazionalista, ereditata a sua volta dal pensiero ecclesiologico di William H. Durham. Ness conosceva bene questo retroterra, e proprio per questo volle che il tema della conferenza ruotasse intorno all’organizzazione e al governo della chiesa: non per rafforzare l’identità pentecostale italiana, ma per indirizzarla verso un’architettura istituzionale conforme al modello americano per meglio controllaree gestire il fenomeno pentecostale che era stato frastagliato.
Sono persuaso che Ness e Gorietti si incontrassero ogni mattina a colazione, presso l’albergo, per pianificare le attività della giornata, e che Gorietti abbia accompagnato Ness a numerosi incontri riservati — certamente a quello dell’8 agosto 1947 in Vaticano, quando il pastore americano fu ricevuto in udienza privata da Papa Pio XII. Non vi è motivo di dubitare che, poche ore dopo, i due si siano recati insieme alla sede della conferenza, dove li attendevano ignari conduttori pentecostali, completamente all’oscuro dei colloqui appena intercorsi in ambienti ecclesiastico-diplomatici di tutt’altra natura. Nessuna informazione fu condivisa; nessun riferimento lasciò trapelare ciò che stava realmente accadendo: una manovra geopolitica mascherata da assemblea fraterna.
Il motivo per cui ho dedicato un paragrafo specifico all’Hotel Inghilterra non è da ricercarsi nella semplice funzione ricettiva che esso svolgeva per Henry H. Ness, ma nel fatto che, in quegli anni, l’edificio si configurava come una vera e propria alcòva di presenze legate all’intelligence internazionale — e non solo. Pur non essendo l’hotel più sontuoso della città, era senza dubbio il più riservato e funzionalmente adatto alla missione di Ness, anche in virtù della sua posizione, della sua storia e del tipo di frequentazioni che attirava. La scelta di soggiornarvi, lungi dall’essere un caso, fu il frutto di una valutazione precisa. Che sia stato Ness stesso a selezionarlo o che sia stata una scelta condivisa con chi ne supervisionava i movimenti, ciò che appare certo è che nulla — nella logica operativa di Henry Ness — veniva lasciato al caso.
A sostegno di tale affermazione, basti considerare che ho dedicato anni allo studio sistematico della sua vita e della sua personalità, esaminando tutte le sue opere note e, mediante l’ausilio della psicolinguistica, tracciando un primo profilo psicologico del personaggio. Ness mostrava una tendenza marcata alla pianificazione meticolosa, talvolta al limite della scrupolosità maniacale. Ogni gesto, ogni ambiente, ogni parola veniva scelto con precisione funzionale rispetto agli obiettivi perseguiti. Per chi si occupa di studi legati all’intelligence, alla massoneria o all’esoterismo applicato alla storia politico-religiosa, tutta l’area circostante l’hotel rappresentava (e rappresenta tuttora) un punto focale di osservazione. Sta ora agli studiosi seri e indipendenti intraprendere ricerche più approfondite, a partire da un’indagine che potrà condurre, per esempio, a identificare i veri proprietari dell’hotel in quegli anni.
Ciò detto, occorre risalire alla storia stessa del palazzo che ospita l’hotel. L’edificio affonda le proprie radici nel XVI secolo, quando venne edificato come residenza nobiliare destinata agli ospiti dei Principi Torlonia, esponenti di spicco dell’aristocrazia nera romana. Già questo dato, per chi conosce la storia delle interferenze aristocratiche nelle vicende vaticane e italiane, non può essere considerato marginale. La piazza antistante era utilizzata per le carrozze degli ospiti, mentre la fontana serviva a lavarle. La zona, già allora abitata prevalentemente da stranieri, rappresentava un crocevia cosmopolita, scelto da famiglie nobili e delegazioni diplomatiche. Non a caso, l’adiacente via Borgognona sembra derivare il proprio nome da una colonia di borgognoni che qui risiedeva già dal primo Quattrocento.
Le carrozze che accedevano alla città lo facevano passando per Porta del Popolo, lungo le antiche vie Flaminia e Cassia. Lo sviluppo urbanistico promosso da papa Pio IX nell’Ottocento trasformò radicalmente il rione, e fu nel 1845 che l’edificio venne ufficialmente convertito in albergo, assumendo il nome di «Hotel d’Angleterre». Il toponimo francese, ben lungi dall’essere casuale, va compreso nel contesto della forte influenza culturale e politica esercitata dalla Francia a Roma in quegli anni, in piena epoca preunitaria. La presenza del poeta John Keats, residente nella vicina Piazza di Spagna, contribuì a rendere la zona particolarmente attrattiva per i visitatori anglofoni, fra cui Lord Byron e Percy B. Shelley. La breve esperienza della Repubblica Romana (1798), ispirata alla Rivoluzione francese, e l’avvicendamento tra Gregorio XVI e Pio IX nel 1846, segnarono un periodo di intenso fermento politico che non mancò di riflettersi anche sul piano urbanistico.
L’hotel, sin dalla sua fondazione, fu frequentato da membri dell’aristocrazia europea, da intellettuali e da figure apicali della diplomazia internazionale. In seguito, divenne uno degli epicentri della Roma dannunziana, gravitante attorno all’asse compreso tra via Condotti, via Bocca di Leone e Piazza di Spagna. Tra i suoi ospiti illustri si annoverano il pianista Franz Liszt, lo scrittore Hans Christian Andersen, il critico Henry James, fino ad arrivare — in epoca più recente — a Elizabeth Taylor, Gregory Peck, Ernest Hemingway e numerosi esponenti delle famiglie reali europee, inclusa una visita ufficiale di Sua Altezza Reale il Principe Filippo, duca di Edimburgo. Il logo stesso dell’hotel si ispira all’araldica della casa reale britannica, a testimonianza di un legame storico con la monarchia di Windsor.
Tutto questo non rappresenta mera erudizione aneddotica: in un quadro più ampio, queste coordinate — storiche, architettoniche, simboliche — gettano luce sul tipo di ambientazione che Henry H. Ness selezionava per agire: un ambiente raffinato, riservato, elitario, e profondamente legato a reti di potere transnazionali.
3. L’ombra lunga dell’ICL e il «National Prayer Breakfast»
Le attività di Henry H. Ness non si limitarono al contesto italiano, ma si estesero con intensità crescente in diverse aree dell’Europa meridionale, in particolare in Spagna, Grecia e Portogallo. È fondamentale sottolineare che il suo operato non era riconducibile esclusivamente all’ambito pentecostale: al contrario, la qualifica di “pastore” fungeva spesso da copertura operativa, utile a dissimulare la vera natura delle sue missioni. Persino la fondazione delle Assemblee di Dio in Italia, per quanto storicamente significativa, appare come un obiettivo subordinato rispetto all’attività più ampia e strategica condotta da Ness su scala continentale per conto dell’International for Christian Leadership (ICL).
Tale organizzazione, espressamente cristiana e marcatamente anticomunista, assunse ufficialmente la denominazione International for Christian Leadership nel 1944, ma operava già dal 1935 sotto il nome di National Committee for Christian Leadership. A fondarla fuAbraham Vereide (1886–1969), pastore metodista di origine norvegese residente a Seattle — la stessa città in cui visse Ness. Dopo la morte di Vereide, la guida dell’ente passò a Douglas Coe (1928–2017), suo stretto collaboratore, figura riservata ma influente, che ne avrebbe profondamente ridefinito l’identità.
Coe fu promotore di un deciso cambiamento strategico: seguendo una logica di invisibilità operativa, trasformò l’ICL in un’organizzazione ancor più elitaria e discreta, modificandone la denominazione prima in «The Fellowship», poi in «The Family», ed estendendo il concetto stesso di “cristianesimo” fino a includere anche ebrei e musulmani, in un’ottica sincretica di convergenza ideologica tra élite globali. Da semplice piattaforma religiosa, l’organizzazione si evolse in una rete trasversale di influenza transnazionale, presente nei vertici di governi, corpi diplomatici, ambienti finanziari, militari e religiosi. L’evoluzione dei nomi riflette con trasparenza l’ambizione crescente dell’ente: da movimento nazionale a soggetto geopolitico globale, infine a struttura deliberatamente occulta e selettiva.
Numerose fonti autorevoli convergono nell’evidenziare che l’ICL fosse fin dagli inizi permeata da presenze massoniche, orientamenti sionisti e connessioni organiche con l’intelligence statunitense, che ne avrebbero orientato le finalità reali. Un’indicazione in tal senso si trova nel compendio massonico 10,000 Famous Freemasons from K to Z, curato da Harry S. Truman e William R. Denslow (Kessinger Publishing, 2004, p. 81), in cui il nome di Henry H. Ness compare tra i membri del comitato esecutivo dell’organizzazione.
In tempi più recenti, questa struttura è riemersa nell’immaginario pubblico con un’espressione che ne sintetizza efficacemente la natura: «la mafia cristiana». Il termine è stato coniato dallo scrittore e giornalista Jeff Sharlet, già membro del gruppo, autore di due volumi investigativi che hanno fatto luce su dinamiche interne, pratiche di potere e forme di controllo informale delle istituzioni. Le sue inchieste, tradotte in una docuserie di successo prodotta da Netflix, hanno riportato all’attenzione mondiale una rete che opera silenziosamente da decenni, sotto le apparenze di una confraternità spirituale.
Prima di addentrarci in tali sviluppi contemporanei, sarà opportuno fare un passo indietro e ricostruire le radici ideologiche, la configurazione originaria e le implicazioni geopolitiche iniziali di questa organizzazione, le cui ramificazioni restano tuttora oggetto di studio.
4. L’arrivo negli Stati Uniti e il passaggio di carriera dal settore farmaceutico a quello petrolifero
Henry Hamilton Ness nacque a Christiania — l’attuale Oslo — in Norvegia, il 6 agosto 1894, da Hans e Dora Ness. Trascorse l’infanzia nel quartiere in cui sorge il palazzo reale (in norvegese Det kongelige slott, solitamente abbreviato in Slottet), mentre il padre, Hans, esercitava con perizia l’arte del calzolaio, confezionando calzature su misura per l’aristocrazia norvegese. Tra i suoi clienti figurava anche la famiglia del principe Carl di Danimarca, che nel 1905, a seguito della dissoluzione dell’unione con la Svezia, ascese al trono come Haakon VII, primo sovrano della Norvegia indipendente.
Il giovane Henry, che nel frattempo si guadagnava da vivere vendendo giornali per le strade della capitale, venne così in contatto con l’ambiente della corte reale. Malgrado la lieve differenza d’età, instaurò un legame di familiarità con il figlio del sovrano, Alexander Edward Christian Fredrik, il quale nel medesimo anno assunse il nome di Olav e che, nel 1957, avrebbe succeduto al padre salendo al trono come Olav V (1903–1991). Secondo quanto egli stesso racconterà in seguito, il rapporto con Olav si sarebbe mantenuto nel tempo, al punto da assumere per lui una funzione ufficiosa di consigliere. E sempre Ness dichiarerà come, proprio grazie a tale vicinanza, sin da adolescente fosse rimasto profondamente colpito dalle visite al palazzo reale di personalità di rilievo internazionale: un’affermazione che getta luce sull’immaginario formativo e sulle aspirazioni del giovane, aiutandoci a delinearne i primi tratti caratteriali e psicologici.
Nel 1911 — sebbene alcune fonti propendano per l’anno precedente —, a soli diciassette anni, Ness lasciò la propria famiglia e si trasferì negli Stati Uniti, stabilendosi a Chicago presso lo zio Jens Wilsberg, presso il quale rimase per circa sette anni. Durante quel periodo ottenne un titolo paragonabile a un baccalaureato in farmacologia, quando ancora negli Stati Uniti era sufficiente aver concluso l’istruzione primaria per accedere a simili percorsi formativi. Da quel momento in poi, iniziò a firmarsi «Dr. Ness», benché tale titolo non corrispondesse a un vero dottorato (PhD) riconosciuto in ambito accademico.
Successivamente, si trasferì a Minneapolis, dove, in società con un imprenditore locale, aprì una piccola farmacia — da non confondersi, per struttura e finalità, con le moderne farmacie commerciali(nota 2). Quella fase della sua vita coincide con un periodo cruciale per la storia della medicina occidentale: da pochi anni era stata scoperta la penicillina, e l’intero settore farmaceutico si trovava al centro di una profonda ristrutturazione, destinata a sfociare nella concentrazione monopolistica che prenderà il nome di Big Pharma.
È proprio in quegli anni che la potente dinastia dei Rockefeller, già protagonista del comparto petrolifero, avviò una strategia sistematica di acquisizione di farmacie e laboratori, giungendo in breve tempo al controllo egemonico del mercato farmaceutico statunitense³. Ogni attività concorrente venne progressivamente assorbita o estromessa. L’ingresso di Ness in quel mondo, seppure in scala ridotta, avvenne dunque in un contesto dominato da una rapida convergenza tra interessi economici, sanitari e politici, destinata a ridefinire il volto della medicina moderna.(nota 3)
E così, dopo appena tre anni, e malgrado gli affari fossero fiorenti, Henry H. Ness decise di vendere la propria farmacia. Secondo quanto dichiarò egli stesso, aveva smarrito ogni stimolo personale in quel settore. Accettò dunque un’offerta da parte della famiglia Rockefeller, cedette l’attività a condizioni vantaggiose e ne ricavò ampi profitti. Poco dopo, accettò un impiego presso la Standard Oil — multinazionale operante in un ambito a lui fino ad allora del tutto estraneo — dove rimase in servizio fino al 1924.
È opportuno ricordare che la Standard Oil — successivamente disgregata per dare origine a colossi come Chevron, Exxon, Mobil, ecc. — era di proprietà della potentissima famiglia Rockefeller, d’origine Cazara aschenazita e di orientamento sionista, in stretta alleanza con altre dinastie bancarie internazionali: Rothschild, Warburg, Morgan, DuPont, solo per citare le più note. Tali famiglie furono coinvolte, secondo alcune ricostruzioni storiche autorevoli, nella genesi del fenomeno Hitler in Germania, in rapporti occulti con i Gesuiti, e in numerosi snodi storici decisivi degli ultimi secoli. Si sostiene inoltre che esse figurino, fin dal 1913, tra i proprietari effettivi della Federal Reserve, la Banca Centrale degli Stati Uniti d’America.
All’interno della Standard Oil, Ness fu inizialmente assegnato al settore vendite — si trattava, naturalmente, di grandi commesse contrattuali con governi e nazioni, inclusa l’Italia — e vi fece carriera rapidamente, fino a ricoprire incarichi di rilievo. Godette costantemente della protezione della dinastia cazara dei Rockefeller,(nota 4) che lo aveva preso sotto la propria ala, considerandolo un investimento strategico. Lo formarono, lo sostennero e — si direbbe oggi — ne curarono il profilo. Del resto, Henry H. Ness era già stato attenzionato da giovane, ai tempi della sua permanenza in Norvegia, quando frequentava il Palazzo Reale e intratteneva rapporti personali con colui che sarebbe divenuto Re Olav V di Norvegia.
Nel 1919 contrasse matrimonio con Anna Molgaard, donna di origine danese, dalla quale ebbe sei figli, tre dei quali risultano ancora in vita alla data in cui viene redatto questo testo (maggio 2021).
5. La collaborazione con Frank B. Gigliotti
La collaborazione tra Henry H. Ness e Frank B. Gigliotti fu costante, diretta e strategica, poiché entrambi operavano sotto la supervisione di medesimi centri di potere sovranazionale, i cui interessi trascendevano le semplici dinamiche religiose o missionarie. Il legame fra i due non fu né occasionale né sporadico, ma metodico e strutturato, come dimostrano non solo i documenti ufficiali, ma anche un corposo scambio epistolare oggi in mio possesso.
Sebbene risiedessero in località assai distanti — il primo a Seattle, il secondo in California — non si limitarono a comunicare per via telefonica o epistolare, ma prediligevano l’incontro personale, soprattutto in occasione di trattazioni delicate. È attestato che, prima di ciascun viaggio di Henry H. Ness in Europa, i due si incontrassero sempre di persona. L’analisi delle lettere testimonia come la preferenza per gli incontri diretti non fosse casuale, ma dettata da motivazioni operative e dalla necessità di riservatezza strategica. In almeno tre viaggi di Ness in Europa — quelli del 1946, 1947 e 1948, i cui itinerari sono stati ricostruiti con precisione — si conferma la presenza di tali incontri preparatori.
Secondo l’organo ufficiale delle Assemblee di Dio in Italia, «Risveglio Pentecostale» (Anno IX, n. 4, 1953, p. 13), il pastore Henry Ness avrebbe compiuto un ulteriore viaggio nel maggio del 1953, visitando le principali chiese ADI da lui fondate. Tuttavia, tale dato non è stato finora verificato documentalmente e, per quanto mi riguarda, ho sospeso le ricerche su questo punto.
I contenuti specifici degli incontri tra Ness e Gigliotti non sono noti nella loro interezza (per quanto a mia conoscenza), ma una parte significativa dello scambio epistolare consente di individuare i temi principali delle loro conversazioni. Tra questi, spicca la pianificazione — in parte già definita come inganno deliberato — della fondazione delle «Assemblee di Dio in Italia», intesa come struttura organizzativa imposta ai pentecostali italiani con finalità non esclusivamente ecclesiali.
È ragionevole ipotizzare ulteriori incontri tra i due, anche se, ad oggi, quelli documentati con certezza coincidono con i viaggi europei di Ness. Alcuni di questi colloqui si svolsero anche negli Stati Uniti, presso la sede centrale delle Assemblies of God a Springfield, Missouri, con il consenso e talora su suggerimento dell’allora Segretario Generale Joseph Roswell Flower e del Direttore delle Missioni Noel Perkins. Entrambi — come suggerisce l’analisi incrociata di diversi documenti — ebbero un ruolo significativo nella genesi e nell’impianto geopolitico del fenomeno ADI e meriterebbero, a loro volta, un’indagine approfondita da parte di ricercatori seri.
6. La Conferenza dei Ventuno a Parigi?
I viaggi di Henry H. Ness non erano mai improvvisati. Venivano pianificati nei minimi dettagli, orchestrati con scrupolo quasi maniacale, e si articolavano attorno a un’agenda fitta di appuntamenti ad altissimo livello. Egli incontrava realì, capi di Stato, vertici militari, autorità ecclesiastiche di ogni confessione, e stringeva rapporti con personalità chiave dell’intelligence internazionale, pur viaggiando — ufficialmente — in qualità di «pastore evangelico». La sua missione pubblica era quella di predicare, fondare chiese, e promuovere la libertà religiosa in Europa; tuttavia, non v’è dubbio che egli operasse simultaneamente su altri fronti, spesso ben più delicati.
Particolarmente emblematico, in tal senso, è il suo secondo viaggio in Europa, quello del 1947, passato alla storia per l’udienza con Papa Pio XII, l’incontro riservato con il rabbino capo David Prato e per la posa delle fondamenta della futura organizzazione delle «Assemblee di Dio in Italia». Ma non fu tutto. In quei medesimi giorni, Henry H. Ness si recò anche a Parigi, dove, come riportato dal Corriere del Bellinzonese, ebbe luogo quella che fu definita la «Conferenza dei Ventuno».
Tale espressione, sebbene impropria, si riferiva alla fase finale della Conferenza di Pace di Parigi — tenutasi tra il 29 luglio e il 15 ottobre 1946 —, che vide coinvolte le ventuno nazioni vincitrici della Seconda guerra mondiale, e che gettò le basi per il nuovo ordine mondiale postbellico. L’Italia vi prese parte in maniera indiretta, come potenza sconfitta, e lo strumento di ratifica del relativo Trattato di Pace fu firmato solo il 4 settembre 1947 dall’allora Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, non senza tensioni con il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e il ministro degli Esteri Carlo Sforza.
Ora, ci si chiede legittimamente: che cosa ci faceva Henry H. Ness a Parigi in un simile contesto? Che ruolo poteva rivestire un «pastore evangelico» nel bel mezzo di trattative geopolitiche riservate, alla presenza di diplomatici, giuristi e plenipotenziari delle principali potenze mondiali? È verosimile ritenere che la sua presenza fosse dovuta a motivazioni di natura spirituale? O piuttosto dobbiamo considerare l’ipotesi, assai più plausibile, che la copertura religiosa celasse incarichi ben più strategici, conferitigli da organismi internazionali collegati all’intelligence atlantica e a reti massonico-sioniste attive nel ridisegnare gli equilibri religiosi e culturali del dopoguerra?
Chi erano i suoi referenti diretti? Per conto di chi agiva realmente Henry H. Ness? Quale mandato implicito portava con sé, camuffato sotto la veste del missionario, del mediatore evangelico, del fondatore di chiese?
La risposta, per quanto ancora parziale, si cela nei documenti trascurati, nelle lettere non pubblicate, nei circuiti internazionali che lo proteggevano e nei quali egli si muoveva come un uomo-ponte, capace di passare da un’ambasciata a una sinagoga, da un palazzo vaticano a una loggia coperta, mantenendo ovunque il medesimo profilo: discreto, riservato, operativamente efficace. Ness non era soltanto presente a Parigi nel momento in cui si ridisegnavano i confini giuridici e spirituali dell’Europa: egli vi partecipava, in forma riservata, come emissario di interessi superiori, al servizio di un’agenda transconfessionale, transnazionale e, forse, anche transgovernativa.
Coraggio studiosi e ricercatori onesti, mettetevi all’opera!
7. Il primo protestante a mettere piede in Israele
Nel corso del 1948, in uno dei momenti più turbolenti e al contempo fondativi della storia contemporanea, Henry H. Ness si distinse — secondo diverse fonti — come il primo pastore protestante a mettere piede nel neonato Stato di Israele. La sua visita, tutt’altro che ordinaria, avvenne tramite un volo speciale partito da Roma e destinato ad Haifa, riservato esclusivamente a cittadini ebrei, dal momento che all’epoca non esistevano ancora collegamenti di linea regolari con il Paese appena nato.
Una volta atterrato, Henry Ness fu accompagnato a Tel Aviv con una scorta militare messa a disposizione dalle neocostituite forze armate israeliane — un trattamento che, per modalità e protocolli, lo accomuna ai viaggi analoghi compiuti da Frank B. Gigliotti e Umberto Gorietti nell’aprile 1947 in Sicilia, pochi giorni prima della strage di Portella della Ginestra (cfr. The Pentecostal Evangel, 24 maggio 1947, p. 7). Tali viaggi, ufficialmente motivati da intenti religiosi, nascondevano quasi sempre finalità sovrapposte: missionarie da una parte, ma strategiche e politiche dall’altra, spesso riconducibili a interessi sovranazionali.
La domanda sorge spontanea: cosa spinse Henry H. Ness a recarsi in Israele in un momento così critico e instabile? Qual era la vera natura della sua missione? Per conto di chi operava realmente? A quali interlocutori — religiosi, politici, militari — si rivolse durante la sua permanenza?
Per comprendere la portata e il significato di questo viaggio, è indispensabile collocarlo nel preciso contesto storico. Dopo la dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Israele il 14 maggio 1948, l’estate fu dominata dalla prima guerra arabo-israeliana, scoppiata in seguito all’invasione di Israele da parte di cinque eserciti arabi. Proprio nel mese di luglio, ad esempio, ebbe luogo l’Operazione Dani, con la conquista di Lydda e Ramle da parte dell’IDF (Israel Defense Forces). Sul piano interno, venivano gettate le fondamenta istituzionali del nuovo Stato, con la nascita della Corte Suprema e l’introduzione della lira israeliana. Ma soprattutto, tra giugno e luglio 1948, David Ben-Gurion istituiva ufficialmente i servizi di intelligence dello Stato ebraico, riorganizzando le funzioni dell’intelligence militare della Haganah in tre entità distinte: lo Shin Bet per la sicurezza interna, l’Aman per l’intelligence militare e, infine, il Mossad, destinato alle operazioni clandestine all’estero.
È in questo scenario che emerge con forza la figura bifronte di Henry H. Ness: da un lato, missionario evangelico, da sempre legato a circuiti protestanti e interconfessionali; dall’altro, intermediario riservato, già coinvolto in operazioni diplomatiche ad alta sensibilità, con forti legami con la famiglia Rockefeller e la struttura nascente dell’International for Christian Leadership (ICL). Ness possedeva il profilo ideale per una presenza tattica in Israele in quel momento: norvegese d’origine, protestante di formazione, ma profondamente coinvolto in reti sioniste e filo-israeliane attive sin dagli anni Trenta, molte delle quali interconnesse con ambienti statunitensi di intelligence e potere economico.
La sua visita non fu dunque un semplice atto di solidarietà religiosa, ma probabilmente parte di una più ampia strategia di raccordo tra cristianesimo evangelico, sionismo e costruzione dello Stato d’Israele. Si trattava, con ogni evidenza, di una missione coperta, operata sotto l’egida della religione, ma volta a garantire il raccordo tra la leadership protestante filo-americana e le nascenti strutture dello Stato ebraico.
A tutt’oggi, i dettagli dell’agenda di Henry H. Ness in Israele restano coperti da riservatezza. Ma i segnali, le modalità, i contatti e i tempi rendono innegabile il fatto che non si trattò affatto di un semplice viaggio per la misisone evangelica.
Coraggio studiosi e ricercatori onesti, mettetevi all’opera!
8. L’adulterio e le dimissioni
Nel 1949, Henry H. Ness, fondatore e presidente del Northwest Bible Institute (oggi «Northwest University») e pastore della Hollywood Temple di Seattle, fu coinvolto in uno scandalo che segnò profondamente la sua carriera. Secondo fonti dell’epoca, Ness fu accusato di aver intrattenuto una relazione “inappropriata” con una studentessa significativamente più giovane, identificata come Ruth Cox. Nonostante si provò già allora a coprire la storia la notizia esplose. Queste accuse portarono le autorità ecclesiastiche e accademiche a “consigliargli” fortemente di rassegnare le dimissioni sia dalla guida della Hollywood Temple che dalla presidenza del Northwest Bible Institute. Nonostante gli sforzi per mantenere riservata la vicenda, la notizia si diffuse, causando un notevole turbamento nella comunità religiosa locale.
La partenza di Ness lasciò un vuoto significativo nelle istituzioni che aveva contribuito a fondare e sviluppare. Dopo un periodo di ricerca, la presidenza del Northwest Bible Institute fu affidata a Charles E. Butterfield, che implementò riforme strutturali e accademiche per rafforzare l’istituto.
9. L’Ictus
Nel 1950, Henry H. Ness fu colpito da un ictus cerebrale che compromise gravemente le sue facoltà neurologiche. A seguito dell’evento acuto, fu sottoposto a un intervento chirurgico intracranico estremamente delicato, il quale — pur avendo evitato conseguenze più drammatiche — lo segnò in modo permanente, sia sul piano fisico che su quello emotivo. Da quel momento, la sua capacità oratoria ne risultò gravemente compromessa, e la predicazione, che fino ad allora era stata la sua cifra distintiva, divenne per lui un esercizio arduo e frammentario.
Fino a quell’episodio, Ness era considerato uno dei più influenti, dinamici e carismatici esponenti delle «Assemblies of God USA», e non pochi lo indicavano come probabile futuro Sovrintendente Generale della denominazione, qualora non fosse intervenuto quel drammatico arresto. La sua traiettoria, già avviata verso posizioni apicali, subì così una battuta d’arresto definitiva, che ne mutò il corso esistenziale.
Anche per questo motivo, Henry Ness non farà più ritorno in Italia. Il suo ultimo viaggio documentato nel nostro Paese risale al 1949, in occasione dell’inaugurazione del locale di culto di via dei Bruzi a Roma, immobile che egli stesso aveva promosso e finanziato. In quella circostanza, predicò personalmente, malgrado le voci sullo scandalo dell’adulterio con Ruth Cox fossero già note a Umberto N. Gorietti, che tuttavia preferì non sollevare alcuna opposizione formale alla sua presenza.
È significativo che l’organo ufficiale delle Assemblee di Dio in Italia (Risveglio Pentecostale, 1953) affermi che Ness avrebbe visitato nuovamente l’Italia nella primavera di quell’anno. Tuttavia, non è stato possibile reperire alcun riscontro documentario a supporto di tale notizia, come già accennato nel paragrafo 4. Alla luce dell’ictus subìto nel 1950, un viaggio transatlantico sarebbe apparso quanto meno improbabile, se non del tutto inattuabile.
Naturalmente, un personaggio complesso e sfaccettato come Henry H. Ness non si spostava mai per una sola ragione. Anche i suoi viaggi «missionari» rispondevano, con ogni probabilità, a mandate superiori, provenienti dai circuiti finanziari e strategici che ne sostenevano le attività. È pertanto legittimo domandarsi quanto delle sue trasferte fosse realmente legato all’evangelizzazione, e quanto, piuttosto, a incarichi paralleli di natura diplomatica, geopolitica o d’intelligence.
10. Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Washington
Dopo l’ictus del 1950, Henry H. Ness ridusse significativamente la sua attività di predicazione. Tuttavia, per un breve periodo, servì come pastore in una piccola chiesa a Oakland, California, avvicinandosi così al collega e amico di tante merende Frank B. Gigliotti. Successivamente, intraprese una carriera nel sistema penitenziario, culminando nella nomina a Presidente del Consiglio per le Condanne e le Libertà Vigilate dello Stato di Washington (equivalente, per portata e funzioni, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel contesto italiano contemporaneo) nel 1950, incarico che mantenne per sei anni.In questo ruolo, Ness continuò il suo ministero, predicando ai detenuti e mantenendo la Bibbia ben visibile sulla sua scrivania, pronto a testimoniare la sua fede a chiunque incontrasse.
11. Il cancro e la morte
Nel corso degli ultimi anni della sua vita, Henry H. Ness fu progressivamente consumato da una grave sindrome neurologica che aveva avuto inizio con l’ictus cerebrale del 1950 e si era poi aggravata con l’insorgenza di forme croniche di dolore neuropatico, tra cui una nevralgia facciale severa, cefalee persistenti e rigidità muscolare mandibolare, che resero sempre più difficoltosa la predicazione pubblica, fino a renderla impossibile. Per gestire tali sofferenze, Ness fece ricorso a potenti analgesici — presumibilmente barbiturici e derivati oppiacei — i quali, con il tempo, compromisero ulteriormente il suo equilibrio neuropsicologico, già gravemente intaccato.
A questi sintomi si sovrappose una patologia oncologica di natura cerebrale. L’evoluzione della malattia fu progressiva e crudele, segnandolo nel corpo e nella mente. Ness, che in gioventù era stato un oratore brillante e un uomo di visione, si ritrovò così ridotto al silenzio e al dolore, isolato, dimenticato dai suoi stessi collaboratori, e devastato nella dignità personale. Era un uomo che si spegneva a piccoli passi, con piena coscienza di sé.
Nel 1970, all’età di settantacinque anni, la sofferenza fisica e l’angoscia interiore raggiunsero un punto di non ritorno. Ness pose volontariamente fine alla propria vita, sparandosi uns revolverata alla tempia con una pistola regolarmente registrata all’interno del suo studio. Per quanto le fonti ufficiali abbiano spesso taciuto o edulcorato l’accaduto, e sebbene le prove citate da G. Butindaro nel volume “La massoneria smascherata” sembrino essere misteriosamente scomparse dal web dopo la pubblicazione del libro, una copia cartacea inequivocabile è in mio possesso e ne attesta senza possibilità di smentita la veridicità.
La parabola finale di Henry H. Ness — predicatore, teologo, farmacista, dirigente penitenziario, agente d’influenza, oratore motivazionale, relatore di rapporti internazionali e figura cardine nella fondazione delle «Assemblee di Dio in Italia» — si chiude nel segno di una tragedia silenziosa, sottratta ai riflettori, consumata nella penombra del dolore e del disincanto.
Una morte volontaria, la sua, che lungi dall’essere relegata a gesto estremo di disperazione, va compresa come atto consapevole, ultimo sigillo di una biografia irrisolta: essa rivela la complessità di un’esistenza vissuta ai margini e al cuore delle grandi tensioni del suo tempo — tra idealismo spirituale e compromesso politico, tra vocazione religiosa e servizio a poteri sovranazionali, tra il pulpito e la loggia, tra l’unzione e la strategia.
Ness fu un uomo liminale, attraversato da forze spesso contraddittorie, prigioniero di un’identità plurima che lo portò ad agire su più livelli della storia, spesso in modo invisibile, a volte ambiguo, sempre determinante. E se è vero che fu dimenticato da coloro che da lui avevano ricevuto più di quanto fossero disposti ad ammettere, è anche vero che la sua fine getta una luce cupa ma rivelatrice su ciò che lo aveva preceduto.
Chi serviva davvero Henry H. Ness? A chi rispondeva? Quale prezzo ha pagato per la sua lucida obbedienza a ordini multipli, spesso confliggenti? La sua tragica uscita di scena — compiuta con un gesto definitivo, radicale e irreversibile — pone una domanda che nessun revisionismo potrà mai eludere: dove termina la fede e dove comincia la manipolazione in quegli uomini che si ergono, simultaneamente, come apostoli e come emissari?
12. L’ignominia del pentecostalismo italiano, specie le ADI
E tuttavia, malgrado Henry H. Ness si fosse prodigato in ogni modo per la causa del pentecostalismo italiano, malgrado avesse fatto confluire ingenti somme di denaro — un autentico Piano Marshall evangelico — nelle casse, e talvolta persino nelle tasche, di predicatori italiani; malgrado avesse messo a disposizione contatti, appoggi, protezioni e una rete diplomatica che aprì ai pentecostali porte fino ad allora inimmaginabili; malgrado, soprattutto, fosse stato il vero artefice della fondazione delle «Assemblee di Dio in Italia» (ADI); la sua morte, avvenuta nel marzo del 1970, non venne minimamente riportata su alcun organo ufficiale dell’organizzazione che da lui traeva legittimazione storica ed esistenza giuridica.
Un silenzio tanto clamoroso quanto deliberato.
Un silenzio che non può essere ascritto a mera disattenzione o a un’imbarazzata reticenza umana, ma che appare come una strategia precisa di rimozione e occultamento, orchestrata da chi aveva tutto l’interesse a cancellare il nome di H. Ness dalla memoria ufficiale per evitare che certe domande riemergessero, e che certe verità venissero alla luce.
Perché — ci si deve chiedere — le Assemblee di Dio in Italia non hanno annunciato la morte del loro fondatore?
Quale codice di fedeltà e quale teologia dell’oblio può giustificare tale omissione?
Francamente, non mi sorprende. Lo stesso trattamento, ugualmente vile e infame, fu riservato — seppure per motivi differenti — anche a Luigi Francescon, pioniere del risveglio pentecostale in Italia, quando nel 1964 passò a miglior vita. Anche in quel caso, il silenzio fu assordante, eppure rivelatore. Perché Francescon era un pericolo, perfino da morto: troppo puro, troppo indomabile, troppo vicino all’origine. Per l’istituzione, era necessario disinnescarne il ricordo, spegnerne la voce, trasformarlo in reliquia muta.
Ma nel caso di Ness, la colpa fu diversa e ben più grave: egli aveva visto troppo, saputo troppo, fatto troppo. E in quella fase finale della sua vita, non era più utilizzabile a scopi di legittimazione interna. Al contrario: la sua biografia ormai spezzata, la sua salute compromessa, i suoi legami internazionali ingombranti, la sua fine tragica e volontaria, avrebbero potuto mettere in discussione tutta la narrazione agiografica delle ADI come opera “pura”, “santa”, “invisibile” dello Spirito Santo.
È dunque in questo silenzio — non casuale, ma strategico — che si rivela la natura profondamente utilitaristica, ingrata e omertosa dell’istituzione.
Un silenzio tanto più eloquente in quanto in aperto contrasto con la prassi consuetudinaria della denominazione, che da sempre pubblica necrologi per i pastori defunti, elogiandone persino gli aspetti più ordinari del ministero anche dove non ci sono ma solo perché in linea con la narrazione ufficiale.
Così, Henry H. Ness, colui che pose le fondamenta stesse della principale organizzazione pentecostale italiana, viene relegato al non detto, all’indicibile. Non perché non meriti menzione, ma perché la sua sola menzione costituisce una minaccia alla memoria selettiva del potere.
E il silenzio che lo ha avvolto, come una seconda sepoltura, grida oggi più forte di qualsiasi elogio postumo. Ecco le ragioni di questi cenni biografici.
13. Il piano Marshall evangelico e il primo Convegno pastorale a Catania

Il primo a coniare l’espressione «piano Marshall evangelico» per indicare l’imponente flusso di aiuti provenienti dalle comunità evangeliche americane verso le chiese evangeliche europee fu, nel 1950, il barone William Fray von Blomberg. Si tratta di una figura peculiare e controversa, legata da fraterna amicizia a Henry H. Ness, anch’egli — come il barone — incardinato in circuiti massonici, ambienti d’intelligence e organici all’Ordine dei Cavalieri di Malta, struttura da sempre sotto l’influenza della Santa Sede. Un personaggio, dunque, che meriterebbe maggiore attenzione da parte degli studiosi per il ruolo discreto ma incisivo che ha ricoperto in una fase cruciale della riorganizzazione del protestantesimo europeo.
Von Blomberg accompagnò Henry H. Ness in numerosi viaggi in Europa. Insieme visitarono diverse chiese pentecostali italiane e, nell’agosto del 1948, presenziarono al primo Convegno pastorale delle neocostituite Assemblee di Dio in Italia. Queste ultime, pur essendo nate de facto nell’agosto del 1947, si costituirono come ente giuridico solo il 22 maggio 1948, presso lo studio notarile di Carmelo Schillaci a Roma, in forza dell’entrata in vigore della Costituzione italiana il 1° gennaio dello stesso anno.
È dunque a Catania che si tenne il primo Convegno pastorale delle ADI legalmente riconosciute. La scelta del luogo non fu affatto casuale. In quella stessa città, Henry Ness aveva infatti acquistato un vecchio deposito — che in passato aveva anche servito da stalla — con l’intento di restaurarlo e convertirlo in locale di culto. Si tratta dello storico edificio di via Juvara 46, destinato a ospitare per circa quarant’anni la comunità pentecostale locale. Durante i lavori di ristrutturazione, Ness volle lasciare un segno visibile della propria identità esoterica, facendo apporre — proprio al centro della sala — un simbolo massonico inequivocabile: la stella a otto punte.
Tale simbolo, non privo di implicazioni iniziatiche, sarebbe stato riproposto decenni dopo anche nel nuovo locale di culto di via Susanna 82, suggellando una continuità iconografica che, lungi dall’essere fortuita, sembra testimoniare il perdurare di legami sotterranei tra ambienti pentecostali locali e cerchie esoteriche di matrice massonica.
Esattamente al centro dell’aula, Ness fece apporre il simbolo massonico della stella a otto punte, cifra iconica della sua firma esoterica. Un dettaglio apparentemente marginale che, tuttavia, manifesta un’intenzionalità precisa: quel sigillo non era decorazione, ma dichiarazione di appartenenza. Singolare — ma non sorprendente — che lo stesso simbolo sia riapparso, a distanza di molti decenni, nell’attuale locale di culto di via Susanna 82, a suggellare una continuità simbolica che pare testimoniare il persistere di relazioni non trascurabili tra alcuni ambienti pentecostali locali e circuiti esoterici d’ispirazione massonica.
Di particolare interesse risulta anche la scelta dell’ubicazione: via Juvara 46, nel cuore del quartiere popolare di San Cristoforo, zona storicamente connotata da un’elevata densità criminale, che nel secondo dopoguerra era considerata tra le aree più problematiche della città. Chi scrive ebbe modo di frequentare quel locale nel 1984, all’età di quindici anni, quando si avvicinò per la prima volta all’ambiente pentecostale. Il quartiere, all’epoca, conservava intatto il suo profilo marginale, ed era notoriamente noto per aver dato i natali e ospitato l’ascesa criminale del boss mafioso Benedetto “Nitto” Santapaola, figura di spicco di “Cosa Nostra”.
È fatto risaputo che in quegli anni, a Catania, non si apriva alcuna attività — nemmeno un banco di frutta — senza il consenso implicito o esplicito della mafia locale. Come spiegare, allora, la possibilità di aprire un locale di culto pentecostale proprio in quella zona senza subire alcun tipo di pressione o opposizione? Si deve forse supporre che l’autorizzazione — o almeno la tolleranza — sia giunta da livelli superiori alla stessa criminalità organizzata? Massoneria, apparati di intelligence e altri centri di potere paralleli potrebbero aver garantito una sorta di immunità ai pentecostali in virtù di interessi convergenti?
Quanto al simbolo della stella a otto punte, ci si chiede: chi, in un ambiente composto in larga parte da credenti semplici e scarsamente istruiti — in un’Italia in cui l’analfabetismo era ancora largamente diffuso — avrebbe potuto concepire, volere e realizzare un intervento iconografico di matrice esoterico-massonica? È evidente che si trattò di una decisione deliberata da parte di un soggetto dotato non solo di competenze esoteriche, ma anche dell’autorità legale necessaria a modificarne l’assetto strutturale e simbolico. E tale soggetto — senza ombra di dubbio — fu Henry H. Ness. Il locale, infatti, apparteneva giuridicamente alle Assemblee di Dio americane, le quali lo concessero in comodato d’uso ai pentecostali italiani, e Ness, che agiva formalmente come rappresentante di tale organizzazione, ne esercitava il pieno controllo operativo.
Rimane infine una domanda cruciale, che la memoria storica non può eludere: perché la mafia non ostacolò mai l’attività della chiesa pentecostale di San Cristoforo? Anzi, secondo quanto riferitomi da membri anziani della comunità negli anni Ottanta, ogni tentativo di disturbo proveniente dalla microcriminalità fu prontamente bloccato. Non dalle forze dell’ordine, ma da ordini impartiti «dall’alto». La domanda resta aperta: da chi provenivano tali direttive? E per quali finalità?
Dopo questa digressione sul locale di culto di Catania, è opportuno tornare a riflettere sul primo Convegno Pastorale ufficiale delle Assemblee di Dio in Italia. Il predicatore ospite fu proprio Henry H. Ness, il quale, in quell’occasione, si fece accompagnare dal Barone William Fray Von Blomberg — personaggio enigmatico, di cui non è affatto certa neppure la genuinità della conversione a Cristo. La sua presenza, più che suscitare fiducia, solleva interrogativi, tanto più che la sua biografia personale si intreccia con ambienti massonici, diplomatici e paramilitari, oltre che con l’Ordine dei Cavalieri di Malta, storicamente legato alla sfera vaticana.
Va osservato, a questo punto, un dato che non può considerarsi marginale: non vi è più traccia di Luigi Francescon, malgrado fosse ancora in vita. Sparisce altresì Nicola Di Gregorio, che fino al 1946 aveva partecipato attivamente ai convegni pentecostali. Così, in modo pressoché definitivo, il principale artefice del risveglio pentecostale italiano, Luigi Francescon, viene estromesso dalla narrazione storica. Non farà pervenire nemmeno un messaggio di saluto, né una lettera, né un segnale di adesione.
D’altronde, tale assenza appare coerente con quanto già si andava delineando: i pentecostali italiani, in un brevissimo arco temporale, avevano abbandonato i principi dei loro padri fondatori per allinearsi con figure espressione di ben altri poteri. Si erano, per così dire, «venduti per una minestra di lenticchie» agli agenti di influenza dell’intelligence statunitense, i quali offrivano denaro, protezione, visibilità — ma anche controllo e subordinazione.
Un passaggio epocale e drammatico, che segnò la sostituzione simbolica e materiale dei pionieri, quali Francescon, Lombardi e Di Gregorio, con personaggi come Von Blomberg, Gigliotti e Ness: figure ambigue, ambivalenti, incuneate nei gangli profondi del potere atlantico, le cui finalità andavano ben oltre il semplice sostegno a una rinascita religiosa.
Quanto alla figura del Barone Von Blomberg, essa merita un approfondimento autonomo. La sua biografia si staglia come un nodo cruciale per comprendere il quadro geopolitico e spirituale che gravita attorno alla nascita delle Assemblee di Dio in Italia.

Tuttavia, i culti serali di questo primo Convegno ufficiale delle Assemblee di Dio in Italia si svolsero presso il tempio della Chiesa Valdese di Catania, gentilmente concesso in uso per l’occasione. Tale concessione appare, in retrospettiva, tutt’altro che scontata. La comunità valdese catanese aveva conosciuto un periodo di relativo splendore negli anni ’40, raggiungendo una soglia di circa 230 membri comunicanti. Tuttavia, nel corso del secondo conflitto mondiale, le attività religiose furono interrotte, e ripresero solo nel 1946, con non poche difficoltà, poiché molti fedeli non fecero mai ritorno.
È importante sottolineare che fino a quel momento non si era mai registrata alcuna forma di collaborazione o dialogo tra il mondo valdese e quello pentecostale. Anzi, i valdesi — influenzati dalla loro impostazione teologico-liberale e storicamente ostili a fenomeni religiosi carismatici — guardavano ai pentecostali con sospetto, considerandoli una setta a causa del loro fervente proselitismo e della loro estraneità rispetto alle strutture ecclesiali tradizionali.
Ci si domanda, allora, per quali ragioni i valdesi mutarono improvvisamente atteggiamento, arrivando non solo a cedere il proprio luogo di culto per una conferenza pentecostale, ma addirittura ad invitare Henry H. Ness a predicare durante il culto domenicale mattutino. Una scelta che, per molti versi, appare in totale discontinuità con la linea storica e dottrinale della Chiesa Valdese.
La verità è che Henry H. Ness stava replicando a Catania lo schema già collaudato a Roma e Napoli: utilizzando le sue vaste connessioni — ecclesiali, diplomatiche e massoniche — per emancipare le neonate ADI dall’isolamento e guadagnare loro una rispettabilità agli occhi del protestantesimo storico, da sempre ostile al movimento pentecostale. Le Assemblee di Dio in Italia erano, in fin dei conti, una creatura di Ness, e in quanto tale egli si adoperava con ogni mezzo per garantirne lo sviluppo, la legittimazione e l’integrazione all’interno del tessuto religioso nazionale. E per farlo, si avvalse senza esitazione dei suoi contatti nei circuiti massonici e diplomatici.
Il pastore della Chiesa Valdese di Catania, in quell’anno cruciale, era il giovane Enrico Corsani (1914–2000), poco più che trentenne, da non confondere con l’omonimo antenato, anch’egli pastore, deceduto nel 1958. Il giovane Corsani era cugino del più celebre Bruno Corsani (1924–2008), insigne storico del cristianesimo, e aveva appena assunto l’incarico catanese dopo aver svolto un importante servizio nella cittadina di Riesi, in provincia di Caltanissetta. Qui, durante l’occupazione alleata della Sicilia, aveva collaborato con il comando americano in qualità di interprete, prestando assistenza al tenente Simonelli, nominato dal comando stesso come sindaco pro tempore della città, pur essendo questi privo di conoscenza della lingua italiana nonostante le origini italo-americane.
Il trasferimento di Corsani a Catania coincise con un passaggio delicato nella vita della comunità valdese locale: egli subentrava infatti al carismatico Teodoro Balma (1917–1994), noto intellettuale e teologo, la cui impronta culturale e pastorale era stata intensa ma anche divisiva. Corsani si trovava quindi a gestire una transizione complessa, all’interno di una comunità provata dalla guerra e in cerca di nuovi equilibri.
È in tale contesto che si intravede, con chiarezza sempre maggiore, l’invisibile regia di Henry H. Ness nell’organizzazione del primo Convegno pastorale delle ADI. Resta tuttavia da porsi una domanda tutt’altro che marginale: come fu possibile per Ness, che al tempo si trovava negli Stati Uniti — e in un’epoca in cui le comunicazioni internazionali non erano certo agevoli come quelle odierne — influenzare direttamente la logistica, i luoghi e i partecipanti del Convegno catanese?
È a questo punto che entra in scena un personaggio chiave, troppo spesso ignorato dalla storiografia ufficiale, e che funge da snodo essenziale tra il mondo valdese, le relazioni diplomatiche e le reti esoterico-massoniche nelle quali Henry H. Ness si muoveva con agio e competenza.
Il ponte di collegamento tra Henry H. Ness e i pastori valdesi che — contro ogni previsione teologica e consuetudine ecclesiale — misero a disposizione il proprio tempio per il Convegno pastorale delle neonate Assemblee di Dio in Italia, fu rappresentato da un personaggio di rilievo tanto discreto quanto decisivo: il Dott. Marcello Mochi.
Valdese, massone dichiarato e legato da rapporti di amicizia con il pastore Teodoro Balma, Mochi non fu soltanto un mediatore ideale tra due mondi apparentemente inconciliabili, ma un diplomatico di carriera con un passato dai contorni tutt’altro che trascurabili. Nel febbraio del 1947, egli venne nominato vice console italiano a Seattle, proprio la città dove risiedeva Henry H. Ness. Fu lì che i due uomini — pur provenendo da tradizioni e vocazioni differenti — stringeranno un’amicizia solida e duratura, cementata da incontri frequenti, anche in ambito familiare, e da una visione del mondo condivisa, afferente a reti di potere transnazionali.
Terminata la missione diplomatica negli Stati Uniti, il Dott. Mochi fu successivamente destinato alla sede consolare italiana di Calcutta, in un momento storico particolarmente delicato per il subcontinente indiano, che si apprestava a transitare dal dominio coloniale britannico alla piena indipendenza. Anche questo incarico non fu casuale: la presenza di un medico valdese, già noto per la sua intelligenza politica e le sue connessioni riservate, costituiva una garanzia per il governo italiano nell’ambito di una diplomazia parallela e profondamente intrecciata con i nuovi equilibri post-bellici.
Merita, peraltro, una menzione particolare il fatto che prima di intraprendere la carriera diplomatica, Marcello Mochi avesse esercitato la professione medica e che, durante il secondo conflitto mondiale, fosse stato al soldo dei servizi segreti tedeschi. Un dettaglio inquietante e tuttavia rivelatore, che getta ulteriore luce sulla complessità dei personaggi coinvolti nella fondazione del pentecostalismo organizzato in Italia e sull’intreccio sotterraneo tra chiese evangeliche, massoneria, diplomazia e intelligence internazionale.
Oh, quanto vi sarebbe ancora da raccontare sulla vera storia del pentecostalismo italiano.
Alcune domande di riflessione
Come già puntualizzato, ma vale la pena ribadirlo, i tredici paragrafi precedenti non ambiscono a costituire una biografia sistematica e completa di Henry H. Ness. Si è inteso, piuttosto, offrire spunti documentati, inediti e finora ignorati persino oltreoceano, al fine di stimolare ulteriori approfondimenti da parte di studiosi realmente interessati alla verità storica, non mediata né filtrata da narrazioni apologetiche. Alcuni frammenti aggiuntivi della biografia di Ness, per quanto parziali e spesso depurati di ogni contenuto controverso, possono essere rintracciati negli articoli del Dott. Francesco Toppi — storico presidente delle Assemblee di Dio in Italia — e negli archivi delle Assemblies of God USA, dove viene testimoniata, ad esempio, la sua partecipazione all’inaugurazione del locale di via dei Bruzi 9–11, a Roma, destinato a diventare la sede nazionale della denominazione da lui stesso fondata.
È tuttavia giunto il momento di interrogarsi con rigore e onestà intellettuale. Le domande che seguono non ambiscono a fornire risposte definitive, ma a squarciare il velo della convenzione storica che ha finora tenuto nell’ombra snodi cruciali della parabola pentecostale italiana.
- Com’è possibile che in un arco temporale tanto breve — all’incirca un anno — il pentecostalismo italiano sia transitato dall’inarremovibile antidenominazionalismo dei suoi pionieri originari, poveri, illetterati ma ardenti di zelo (quali Luigi Francescon, Giacomo Lombardi, Pietro Ottolini, Luigi Menna e Nicola Di Gregorio), a un assetto dominato da architetti di denominazioni, colti, ben finanziati e collegati a potenti circuiti internazionali? Da dove provenivano, in effetti, i fondi che permisero a questi nuovi attori di muoversi con tanta disinvoltura e influenza? Chi erano — e per conto di chi operavano — personaggi come Baron William Fray Von Blomberg, Henry Hamilton Ness, Frank Bruno Gigliotti, Charles Fama, Patrick J. Zaccara, Francis J. Panetta, solo per citarne alcuni? Come si spiega la repentina metamorfosi di una comunità ecclesiale che aveva resistito con fermezza alla persecuzione fascista, pur di non piegarsi a strutture gerarchiche o denominazionali, ma che poi si lasciò sedurre — in modo quasi irreversibile — dalle promesse, dai finanziamenti e dalle lusinghe di emissari americani, ben inseriti nei giochi geopolitici dell’epoca?
- Com’è stato possibile che il pentecostalismo italiano, che fino a quel momento aveva dimostrato straordinaria coerenza spirituale e saldezza dottrinale, al punto da sopportare con dignità la persecuzione fascista per rimanere fedele all’evangelo primitivo (cfr. Giuda 3), abbia ceduto così repentinamente e con sorprendente facilità alle lusinghe e ai modelli organizzativi proposti da esponenti americani, spesso ambigui, che nulla avevano a che vedere con le origini carismatico-congregazionaliste dei primi pionieri?
- Com’è potuto accadere che, nel volgere di pochi mesi, sia stato rinnegato quell’anti-denominazionalismo tenace, ereditato direttamente da Luigi Francescon e William H. Durham, per abbracciare un denominazionalismo strutturato e verticistico che rappresentava, di fatto, una vera e propria mutazione teologica?
- Com’è spiegabile la rapidità con cui avvenne tale metamorfosi? La storia delle religioni insegna che le trasformazioni dottrinali profonde richiedono generazioni. Qui, invece, tutto si compì in pochi mesi.
- Perché Luigi Francescon, il padre riconosciuto del pentecostalismo italiano, non partecipò al convegno del 1946, limitandosi ad inviare Nicola Di Gregorio? Secondo quanto riportato da Francesco Toppi, la sua assenza fu giustificata da motivi di salute. Tuttavia, è lecito domandarsi quanto questa spiegazione sia fondata, considerando che nello stesso periodo Francescon si spostava agevolmente tra gli Stati Uniti e il Brasile, affrontando viaggi lunghi e complessi, ben più gravosi di una traversata verso l’Italia.
- Perché Francescon si defilò completamente dalla scena italiana, interrompendo ogni forma di corrispondenza e relazione con i pentecostali della Penisola? E perché, a partire dal Convegno di Catania del 1948, sparirono dalla scena anche Nicola Di Gregorio e tutti gli altri protagonisti del movimento nato a Chicago?
- Perché Luigi Francescon non rispose mai alle lettere — tuttora custodite negli archivi ADI — che Umberto Nello Gorietti gli scrisse, manifestando tra le righe un certo senso di colpa per l’istituzionalizzazione delle Assemblee di Dio in Italia? E perché nel 1958, allorché il giovane Francesco Toppi, trentenne, si recò a Chicago con il desiderio di incontrare personalmente Francescon per parlargli del nascente Istituto Biblico Italiano, tale visita gli fu negata da Nicola Di Gregorio? Secondo quanto scrisse lo stesso Toppi anni dopo in un articolo pubblicato su Cristiani Oggi, Di Gregorio giustificò il rifiuto affermando che Francescon era fermo nelle sue posizioni antidenominazionali, e che, data l’età avanzata, era meglio non turbarlo. Ma è davvero plausibile una simile spiegazione, considerando che in Brasile Francescon aveva creato una struttura organizzativa ben più articolata di quella italiana?
- Toppi ha realmente raccontato tutto? O vi erano altre ragioni, più profonde, che motivavano il suo insistente desiderio di incontrare Francescon, e l’altrettanto ostinata resistenza da parte di Di Gregorio?
- Che messaggio doveva Toppi consegnare o ricevere? Quale verità taciuta doveva essere discussa — o, forse, insabbiata — nel corso di quell’incontro mai avvenuto?
- Perché la sola presenza di Toppi avrebbe potuto turbare Francescon, se davvero non vi era nulla da nascondere?
Sono queste — e non altre — le vere domande a cui gli studiosi seri, non collusi e realmente appassionati alla ricerca storica, dovrebbero avere il coraggio di rispondere. Perché una verità storica che non sia disposta a interrogarsi sulle proprie contraddizioni, è destinata a perpetuare il mito anziché illuminare i fatti.

Era pressoché impossibile, per i pionieri del pentecostalismo italiano come Luigi Francescon e Giacomo Lombardi, competere con le figure emergenti del panorama evangelico internazionale nel secondo dopoguerra. Questi ultimi si presentavano con un profilo ben diverso: parlavano correntemente più lingue, possedevano una formazione teologica formalmente riconosciuta e, soprattutto, beneficiavano dell’aura carismatica del cosiddetto «mito americano» – mito abilmente alimentato da Hollywood, dalla stampa e dalla propaganda militare statunitense all’indomani della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.
Benché provenissero anch’essi dagli Stati Uniti, i pionieri italiani giunti da Chicago appartenevano a un’altra classe sociale: uomini umili, privi di titoli accademici, spesso autodidatti, e con competenze linguistiche assai modeste sia in inglese sia in italiano. La loro autorevolezza era fondata non su diplomi o cattedre, ma sulla coerenza spirituale, sul carisma personale e sulla testimonianza vissuta. Tuttavia, queste virtù – pure nobili e ispirate – non bastarono a resistere all’ondata travolgente che stava per investire il giovane movimento pentecostale in Italia.
Occorre dirlo con franchezza: la nascita delle Assemblee di Dio in Italia non fu affatto lineare, come si è voluto far credere in molte narrazioni ufficiali. Fu, al contrario, il prodotto di una fitta rete di trattative riservate, scambi epistolari segreti, accordi transatlantici e giochi di influenza portati avanti nel silenzio degli archivi. Basti pensare, ad esempio, ai documenti che attestano i contatti tra E. Rustici e le Assemblies of God USA mentre la guerra era ancora in corso – documenti che meriterebbero ben altra attenzione da parte degli storici.
Quella delle ADI è una genesi fatta di intrecci internazionali, di presenze enigmatiche – come Frank B. Gigliotti, Charles Fama, Baron William Fray Von Blomberg, Patrick J. Zaccara, Francis J. Panetta, H. Parli – che non piombarono certo in Italia per caso o per ispirazione divina. Possiamo davvero credere che Henry H. Ness sia giunto all’improvviso, dal nulla, come un Elia dei tempi moderni? Oppure fu inviato, sostenuto, finanziato e collocato in posizioni strategiche ben prima che le ADI fossero anche solo pensabili?
In tale contesto si inserisce il flusso considerevole di denaro che Henry H. Ness (o Nesh) fece confluire verso l’Italia. Tali risorse – distribuite con sapiente discrezione e indirizzate a figure chiave – fecero breccia nei cuori (e talvolta nelle tasche) di alcuni conduttori pentecostali locali, accuratamente selezionati per la loro posizione geografica e per l’influenza esercitata sulle comunità. Tra questi si ricordano, emblematicamente, V. Federico e R. Di Palermo in Sicilia, S. Anastasio nel Meridione, e U. Gorietti e R. Bracco a Roma, snodo fondamentale per le relazioni con il potere istituzionale, le ambasciate e, non da ultimo, la Santa Sede. Sarebbe oggi ingenuo escludere, a priori, che alcuni di questi personaggi potessero essere stati in qualche modo legati alla massoneria.
È così che nacquero le ADI. Non per un puro slancio spirituale, né per un’intuizione teologica collettiva, ma per effetto di un processo ben orchestrato in cui convergevano denaro, logistica, relazioni diplomatiche e un piano ideologico preciso. Senza quei finanziamenti strategici, senza quelle personalità influenti, senza quegli appoggi occulti, è lecito supporre che le Assemblee di Dio in Italia non sarebbero mai sorte, o almeno non nella forma attuale.
Il movimento pentecostale italiano dell’epoca era ancora profondamente congregazionalista e antidenominazionalista, ben più di quello americano. E soprattutto, viveva nella convinzione – oggi storicamente ingenua – di essere entrato in contatto diretto col cristianesimo apostolico, come se duemila anni di storia ecclesiastica fossero stati improvvisamente annullati. Questa visione, in parte mitica e in parte funzionale, era diffusa tra i semplici credenti e perfino tra alcuni responsabili. Io stesso, adolescente, ho creduto per un periodo a tale ingenuità, alimentata da conversazioni private con pastori e conduttori. In un’epoca priva di internet, priva di informazione critica, anche la favola più implausibile poteva sembrare verosimile.
Sì, anch’io sono stato ingannato. Ma oggi, con i documenti alla mano, con gli archivi aperti e con una coscienza storica più matura, è tempo di restituire a questa narrazione la sua verità: la nascita delle ADI non fu solo un atto ecclesiale, ma un prodotto storico, sociale, geopolitico, economico, psicologico, culturale, intelligence-oriented e spiritualmente strategico. E proprio per questo merita di essere studiata nella sua profondità interdisciplinare e nella sua complessità transnazionale.
Senza questi personaggi e senza il fiume di denaro che H. Ness fece confluire nelle casse (e talvolta anche nelle tasche di alcuni conduttori chiave) dei pentecostali italiani le ADI non sarebbero mai nate.
In linea con tutto quanto precedentemente esposto — e che qui si può a buon diritto definire come una vera e propria «colonizzazione americana» sul piano religioso, culturale ed economico, perfettamente sincronizzata con i mutamenti politici e sociali dell’Italia post-bellica —, Henry H. Ness si adoperò anche per il reclutamento di risorse umane che potessero incarnare la sua visione nel tempo. Tra queste, va segnalato il caso emblematico di due giovani italiane, Yvonne (Ivana) Altura e Maria Arcangeli, da lui invitate a frequentare il Northwest Bible Institute, l’istituzione accademica da lui fondata negli Stati Uniti, assumendosi personalmente l’onere economico della loro formazione. La prima, pressoché sconosciuta alla generalità dei pentecostali italiani, diverrà in seguito docente all’interno della stessa scuola biblica promossa da Ness.
Parallelamente, Ness fece confluire in Italia una quantità ingente di risorse finanziarie e materiali, tali da esercitare un’influenza decisiva — e, in alcuni casi, determinante — su alcuni esponenti chiave del movimento pentecostale italiano. Tra questi, V. Federico, R. Bracco, U. Gorietti, e un ristretto nucleo di artigiani e imprenditori calzaturieri, quali A. Pagano, S. Anastasio e A. Melluso: uomini pragmatici e radicati nei circuiti produttivi del sud Italia, ma evidentemente disponibili ad allinearsi a un progetto ecclesiale di più ampio respiro purché accompagnato da solidi incentivi materiali.
È noto che U. Gorietti, prima di emergere come figura di rilievo nella neonata denominazione, era legato da vincoli lavorativi con quegli stessi artigiani partenopei che gli garantivano il sostentamento. Henry H. Ness, acuto conoscitore della dinamica del potere economico e delle leve d’influenza sociale, comprese perfettamente il ruolo strategico che tali calzolai potevano giocare nella costituzione delle Assemblee di Dio in Italia. Sapeva bene che, per assicurarsi dei referenti affidabili sul territorio, occorreva offrire qualcosa di concreto in cambio. E lo fece.
Non è un caso che, negli anni successivi, molti di quei soggetti — già legati a doppio filo a Ness — videro la propria posizione economica migliorare sensibilmente: Gorietti si aprì un negozio in pieno centro a Roma, mentre i Melluso si trasformarono da semplici artigiani in affermati imprenditori del settore calzaturiero. Ma di questi sviluppi si parlerà in altra sede.
Tutto ciò, però, costituisce il retroterra storico di quello che, non a torto, è stato definito da taluni studiosi indipendenti un «tradimento teologico e storico dei pionieri pentecostali». La storiografia più attenta — e libera da vincoli ideologici — lascia ormai trasparire con sufficiente chiarezza che l’avvento delle ADI fu, in effetti, il risultato di una congiura silenziosa ma ben orchestrata, consumatasi alle spalle dei fondatori originari del movimento pentecostale italiano.
Gli investimenti americani in Italia
Fu proprio Henry H. Ness a far confluire, in modo sistematico e strategicamente mirato, un autentico fiume di risorse economiche a sostegno dei pentecostali italiani. Tra gli interventi più significativi e documentabili si annoverano l’acquisto di due immobili destinati al culto: il primo sito in via dei Bruzi 9–11, a Roma, per la somma di 25.000 dollari; il secondo in via Juvara 46, a Catania, per un importo di 13.000 dollari. Entrambi gli edifici, almeno in origine, risultavano intestati alle Assemblies of God statunitensi, le quali ne concessero l’utilizzo gratuito alle chiese italiane appena costituite. Solo in un secondo momento — e unicamente a seguito del riconoscimento giuridico in qualità di Ente Morale — tali beni furono formalmente donati all’associazione denominata «Assemblee di Dio in Italia» (ADI). È lecito domandarsi, a questo punto, se tale strategia patrimoniale debba essere letta come uno strumento di pressione, una sorta di leva ricattatoria (del tipo: «se non obbedite, ci riprendiamo tutto»), oppure come una raffinata forma di seduzione e fidelizzazione funzionale al controllo ideologico e strutturale.
Un ulteriore nodo meritevole di approfondimento è rappresentato dalla città di Napoli, e in particolare dalla genesi della celebre azienda calzaturiera Melluso, la cui storia s’intreccia — in maniera tutt’altro che marginale — con le dinamiche politiche, economiche e religiose dell’Italia del secondo dopoguerra, nonché con la stessa nascita delle ADI. La ditta dei cognati Melluso–Anastasio vide la luce nel 1945, nel cuore del Rione Sanità, ad opera dell’allora diciassettenne Alfonso Melluso e della giovane e carismatica Addolorata Anastasio — sorella minore di Salvatore Anastasio (1904–1984) — in perfetta sincronia con i primi, decisivi tentativi di strutturazione del movimento pentecostale italiano in forma denominazionale.
Non si tratta, evidentemente, di semplici coincidenze. Sarà proprio questa azienda, infatti, a ospitare numerosi convegni pastorali di portata nazionale, tra cui l’assemblea costitutiva del 1946, quella del 1947, e ancora quella del 1950 che sancì il passaggio dal «Comitato Esecutivo» al primo «Consiglio Generale delle Chiese». Persino l’assemblea generale del 1978 — nella quale Francesco Toppi fu eletto presidente, succedendo al suo «zio» Umberto N. Gorietti (zio materno per parte della madre Gina Gorietti) — si tenne negli spazi riconducibili a tale impresa. In quella stessa occasione vennero approvati lo Statuto annotato, il Regolamento interno delle ADI e la lista degli argomenti da proporre all’interno della futura Intesa con lo Stato, resa possibile dalla risposta favorevole del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti nel 1977 all’apertura delle trattative formali【nota 5】.
Vi è, tuttavia, un dettaglio tutt’altro che trascurabile, che conferisce ulteriore spessore simbolico — e forse anche operativo — a questa rete di interconnessioni. Il padre di Henry Ness, Hans Ness, era anch’egli un artigiano calzolaio. La sua bottega, situata a poche decine di metri dal Palazzo Reale di Oslo, era al servizio dell’aristocrazia norvegese e della famiglia reale stessa. Si trattava dunque non di un mestiere comune, ma di una vera e propria arte di corte, carica di implicazioni simboliche, relazionali e identitarie. Appare dunque verosimile che Henry H. Ness — pur in possesso di un baccalaureato in farmacologia e già inserito nei ranghi della Standard Oil della potentissima dinastia sionista ashkenazita dei Rockefeller【nota 4 bis】— conservasse una particolare sensibilità verso l’universo artigianale, con il quale manteneva legami affettivi e mnemonici profondi. Quando incontrò Alfonso Melluso e Salvatore Anastasio, quei ricordi riaffiorarono, e non è da escludere che sia stato proprio lui a suggerire loro una svolta strategica: trasformare un umile mestiere in un’attività industriale destinata ai ceti più elevati, riproponendo un modello già sperimentato nella sua infanzia norvegese.
La storia pentecostale del dopoguerra — almeno nella sua declinazione italiana — si configura pertanto come un intreccio di eventi, scelte e alleanze troppo coerenti per essere attribuiti al caso. Un mosaico finemente cesellato, in cui economia, massoneria, politica e religione si saldano in una trama sotterranea, complessa e pervasiva, disegnata da forze che operano al di là dello sguardo comune.
1. Napoli e l’azienda Melluso
Il patriarca della famiglia Melluso e cofondatore, insieme ad Addolorata Anastasio, della futura azienda di calzature nota a livello nazionale, Alfonso Melluso, era nipote diretto di Salvatore Anastasio. Quest’ultimo, figura carismatica del pentecostalismo meridionale, fu peraltro amico stretto e datore di lavoro di Umberto N. Gorietti, futuro primo presidente delle Assemblee di Dio in Italia, il quale — come documentato da diverse fonti — lavorava a Roma come agente di commercio nel settore calzaturiero, ricevendo lo stipendio proprio dalla fabbrica di S. Anastasio.
Gorietti, a sua volta, intratteneva rapporti di stima e collaborazione con due figure centrali di questo studio: Frank B. Gigliotti e Henry H. Ness — quest’ultimo figlio di un artigiano calzolaio attivo nei pressi del Palazzo Reale di Oslo, fornitore dell’aristocrazia norvegese. È dunque all’interno di questa rete relazionale che il giovane Alfonso Melluso si formò, sia sul piano imprenditoriale che religioso, sotto la guida di Salvatore Anastasio, il quale rivestì un ruolo determinante nella sua formazione. Va segnalato, a tal proposito, un evento degno di nota: nel 1952, S. Anastasio vinse un viaggio negli Stati Uniti nell’ambito di un concorso promosso dalla casa cinematografica americana Metro Goldwyn Mayer in collaborazione con la compagnia aerea KLM, per la miglior vetrina commerciale di calzature realizzata in Italia.
Chi legge con attenzione avrà notato una scelta lessicale significativa: non si è parlato qui di “conversione” alla fede pentecostale, ma di «iniziazione» — espressione volutamente adottata per evidenziare le molteplici stratificazioni, anche simboliche, che caratterizzano tale percorso, soprattutto in questo caso specifico.
In questo quadro, il giovane Alfonso Melluso si ritrovò in stretta prossimità sia con il presidente Gorietti, per ragioni legate al lavoro e alla fede, sia con altri personaggi centrali nel contesto esaminato. Ed è proprio in questo frangente che si consolidò quella visione strategica che lo portò a comprendere l’importanza di integrare le tradizionali tecniche artigianali con i più moderni processi industriali, avviando un percorso che trasformò un’attività locale a conduzione familiare in una delle realtà imprenditoriali di maggior rilievo nel panorama calzaturiero italiano.
Ecco dunque come la storia pentecostale del dopoguerra italiano si intreccia con una serie di coincidenze tanto straordinarie quanto ricorrenti. In particolare, colpisce la perfetta sincronia tra l’arrivo a Napoli di Henry H. Ness e alcuni eventi chiave che segneranno un punto di svolta decisivo sia per la nascita delle Assemblee di Dio in Italia (1947) sia per il decollo imprenditoriale della piccola fabbrica artigiana Melluso–Anastasio.
Nello specifico, l’anno 1948 appare come un crocevia emblematico. Mentre Henry H. Ness investiva ingenti somme di denaro per l’acquisto di immobili destinati al culto a Roma e a Catania — operazioni che testimoniano un’azione coordinata e pianificata su scala internazionale —, la modesta bottega di calzature di Napoli compiva un balzo prodigioso verso l’industrializzazione. Proprio in quell’anno, infatti, furono acquistati costosi macchinari di ultima generazione, la cui provenienza finanziaria non è mai stata ufficialmente chiarita, consentendo una modernizzazione radicale dei processi produttivi: l’aumento della capacità di produzione, l’abbattimento dei costi unitari e il passaggio da un’attività artigianale a una vera e propria industria su scala nazionale e, ben presto, internazionale.
Tuttavia, la trasformazione non fu soltanto tecnologica: nello stesso periodo, la sede dell’azienda fu trasferita da un modesto sottoscala del Rione Sanità — storicamente associato a condizioni sociali marginali — a un ampio e lussuoso immobile situato nell’ex convento di un ordine religioso, nel quartiere collinare e benestante di Capodimonte. Il salto di qualità fu dunque anche simbolico: da un ambiente umile e periferico a un contesto di prestigio, segnando così l’ingresso ufficiale della Melluso nel mondo dell’imprenditoria industriale italiana.
È difficile non rilevare come questa evoluzione — apparentemente improvvisa e fortunosa — sia avvenuta in concomitanza con la presenza in città di Henry H. Ness, figlio di calzolaio, pastore evangelico e influente intermediario geopolitico. Una presenza che, per quanto formalmente riconducibile a motivi religiosi, sembra aver generato effetti collaterali rilevanti anche sul piano economico e industriale. Verrebbe da dire, con prudente ironia, che l’arrivo di Ness portò con sé non soltanto un Vangelo di rinnovamento spirituale, ma anche una singolare forma di prosperità materiale, almeno per alcuni.

Va detto, per inciso, che l’ex convento in questione ha assolto per molti anni — sempre casualmente — una funzione duplice, se non triplice: da un lato, divenne la sede operativa della rinomata azienda Melluso; dall’altro, fu utilizzato come luogo di culto per la comunità pentecostale delle «Assemblee di Dio in Italia» (ADI) con sede a Napoli; infine, ospitava anche la residenza della famiglia Pasquale Melluso — padre di Alfonso e cognato di Salvatore Anastasio. Coincidenze, si dirà. Ma quando le coincidenze iniziano ad accumularsi, assumono spesso il volto dell’intenzionalità.
Viene allora spontaneo chiedersi se vi siano state — se non clausole formali, almeno implicite condizioni — imposte da Henry H. Ness ai calzolai pentecostali partenopei, affinché questi ultimi assumessero la gestione del backoffice della neonata denominazione in cambio di appoggi, capitali e visibilità. In ogni caso, il dato oggettivo resta: per anni, in quel medesimo edificio, durante il giorno si producevano calzature di altissima qualità — in perfetta continuità con l’attività paterna svolta da Hans Ness in Norvegia per l’aristocrazia di corte — mentre la sera si riorganizzavano gli spazi, spostando alcuni macchinari, per dare luogo ai culti pentecostali. Una commistione singolare tra lavoro manifatturiero e liturgia, tra produzione e predicazione, che non può essere ridotta a semplice logica di economia di spazi.
Ciò che si impone è, piuttosto, una rilettura critica dell’intero fenomeno: non si può comprendere appieno la genesi e lo sviluppo delle Assemblee di Dio in Italia senza tener conto del ruolo centrale giocato da alcune realtà imprenditoriali — in primis la Melluso — nelle fasi fondative del movimento. Questa verità, a lungo sottaciuta o perlomeno marginalizzata, è oggi ammessa persino da autori interni al circuito pentecostale ufficiale. Tra questi, si distingue la significativa ammissione di Alessandro Iovino, il quale, nel tentativo di recuperare la memoria storica, scrive:
«La Vitulli insieme alla Starlet, alla Melluso e alla D’Alessandro sono state aziende che non solo hanno scritto pagine significative della storia delle calzature in Italia, ma anche del movimento pentecostale».【nota 6】
Una frase che, letta tra le righe, sembra voler rivendicare una sorta di ius originis pentecostale non da parte di teologi o pionieri della fede, ma da parte di imprenditori-artigiani che, sostenuti da reti transnazionali di potere e finanziamento, hanno di fatto determinato — o almeno influenzato profondamente — le direttrici poitiche, organizzative e logistiche del movimento. Un messaggio sottile, ma inequivocabile, destinato a più interlocutori: ai militanti interni, perché non dimentichino chi ha realmente reso possibile l’ascesa dell’organizzazione; e agli osservatori esterni, come monito che sotto l’apparente semplicità evangelica si celano strutture ben più complesse e articolate.
Tuttavia, un evento occorso il 10 agosto 2021 getta un’ombra di sospetto sull’intera ricostruzione ufficiale. In quella data, un commento apparso pubblicamente sul profilo Facebook di Antonio Iovino, autore e divulgatore vicino al circuito istituzionale delle ADI, ha introdotto un elemento imprevisto e potenzialmente dirompente. A scriverlo è stato Beniamino Salvino, figlio di Addolorata Anastasio, la cofondatrice della storica azienda Melluso.
La dichiarazione di Salvino — il quale, pur essendo bambino all’epoca dei fatti, dichiara di aver appreso direttamente dalla madre e dagli zii le dinamiche interne alla famiglia e all’azienda — rappresenta una fonte primaria di rilievo, che merita attenzione critica. Secondo la sua testimonianza, infatti, Alfonso Melluso non sarebbe mai stato favorevole alla presenza dei pentecostali all’interno degli spazi aziendali. Anzi, egli ne sarebbe stato infastidito al punto da ostacolarne attivamente la partecipazione, impedendo loro, a un certo punto, l’accesso stesso alla fabbrica. Le prime riunioni pentecostali napoletane — prosegue Salvino — si sarebbero tenute, in realtà, non all’interno dello stabilimento Melluso, bensì presso le abitazioni private dei fratelli Anastasio: Salvatore, Giovanna e Maddalena.
Se tale testimonianza corrispondesse al vero, essa implicherebbe una revisione profonda della narrativa storiografica veicolata negli ambienti pentecostali ufficiali, e in particolare nei testi divulgativi di autori come Antonio Iovino, i quali appaiono inclini a una rappresentazione agiografica — se non fiabesca — della propria genealogia ecclesiale. Il problema, tuttavia, va ben oltre la ricostruzione di un aneddoto logistico. Il punto critico sta nel fatto che, in presenza di una testimonianza familiare diretta che smentisce la versione ufficiale, uno dei due interlocutori mente: o mente Iovino, oppure mente Beniamino Salvino.
Ma a quale scopo? Perché mistificare una questione che, a prima vista, potrebbe sembrare secondaria? È qui che la domanda si fa più profonda: nel contesto di una denominazione che ha costruito la propria legittimità anche su narrative fondative, ogni dettaglio simbolico e topografico diventa essenziale. La presenza di una chiesa pentecostale all’interno della fabbrica Melluso — nel cuore stesso del «miracolo industriale napoletano» — assurge, nella retorica ufficiale, a metafora dell’incontro tra lavoro e fede, tra spirito imprenditoriale e missione evangelica. Ma se questo intreccio fosse stato costruito post hoc, sulla base di suggestioni e non di documenti, ci troveremmo dinanzi all’ennesimo caso di rimozione della verità storica in favore di una narrazione edificante.
A peggiorare la posizione dell’autore Iovino, vi è un ulteriore dato verificabile: a pochi minuti dalla pubblicazione del commento di Beniamino Salvino, questo fu rimosso dal profilo Facebook dell’autore, senza alcuna risposta pubblica o smentita argomentata. Un gesto che, lungi dal chiudere la questione, non ha fatto altro che alimentare i sospetti e rinforzare la percezione di un clima censorio. Fortunatamente, qualcuno fece in tempo a salvare lo screenshot del commento, che oggi costituisce un prezioso reperto documentale — benché scomodo — utile agli studiosi indipendenti per restituire alla storia del pentecostalismo italiano un volto più autentico e meno mitizzato.
2. Riflessioni
Naturalmente, quei 38.000 dollari — la cifra ufficialmente documentata — che Henry H. Ness fece giungere dall’America per l’acquisto dei locali di culto di Roma e Catania, rappresentano un investimento strategico di rilevante entità da parte delle Assemblies of God USA. Rapportata al potere d’acquisto attuale, tale somma supererebbe abbondantemente il milione e mezzo di euro (€ 1.500.000), un capitale che difficilmente può essere interpretato come mera generosità disinteressata. Si trattò, piuttosto, di un’operazione pianificata nei minimi dettagli, orientata a consolidare l’influenza americana nel neonato movimento pentecostale italiano, specialmente presso i gruppi emergenti di Roma e della Sicilia. Ci si potrebbe allora domandare: fu un investimento spirituale, oppure geopolitico?
La domanda successiva sorge spontanea: e Napoli? I leader partenopei, notoriamente influenti nel tessuto pentecostale italiano, aderirono alla nuova struttura denominazionale mossi da autentiche convinzioni spirituali, oppure ricevettero, come i colleghi romani e siciliani, qualche incentivo materiale o relazionale? La Campania, come la Sicilia, rappresentava — e rappresenta tuttora — uno dei principali bacini pentecostali italiani. Eppure, proprio a Napoli si riscontra la presenza di quegli unici pentecostali italiani che, all’epoca, disponevano di un embrione imprenditoriale promettente: i Melluso e gli Anastasio, artigiani calzolai con ambizioni industriali.
Ed è qui che emergono le «coincidenze» — troppe per essere ignorate. Henry H. Ness, uomo dotato di acuta intelligenza strategica, non poteva restare indifferente alla scoperta che il nucleo pentecostale napoletano gravitasse attorno a una famiglia di calzolai. Infatti, suo padre, Hans Ness, era stato calzolaio di lusso a Oslo, fornitore della corte reale norvegese, e in particolare della famiglia di Haakon VII, salito al trono nel 1905 dopo la separazione dalla Svezia. Per Henry H. Ness, che aveva conseguito un baccalaureato in scienze farmaceutiche e che aveva lavorato per la Standard Oil — la multinazionale della potente famiglia sionista ashkenazita dei Rockefeller, legata ai Rothschild e ai Warburg, e non estranea, secondo alcune fonti, alla genesi del fenomeno Hitler e ai legami con l’entourage gesuitico — l’arte della calzoleria non era affatto estranea. Anzi, essa evocava in lui ricordi d’infanzia, simboli familiari, e forse anche un codice identitario non del tutto sopito.
È dunque perfettamente comprensibile, almeno sul piano psicologico e affettivo, l’impatto emotivo che dovette suscitare in Henry H. Ness la scoperta che proprio a Napoli — città strategica non soltanto sotto il profilo geografico ma anche simbolico, sede di una delle più rilevanti basi NATO del Mediterraneo — il seme del movimento pentecostale stava germogliando all’interno di una bottega artigiana di calzolai. E non si trattava di una bottega qualsiasi, ma di quella appartenente alle famiglie Melluso e Anastasio che — sempre “casualmente” — sarebbero divenute, nel volgere di pochi anni, protagoniste di un’ascesa imprenditoriale tanto rapida quanto significativa, nel cuore del panorama industriale italiano del dopoguerra.
In tale contesto, la storia pentecostale del dopoguerra appare sempre più come un mosaico di connessioni e di eventi che, per quanto presentati come provvidenziali o spirituali, rivelano una trama ben più articolata, in cui fede, affari, simbolismi familiari e interessi geopolitici convergono in modo sorprendentemente sincrono. L’arrivo di Henry H. Ness a Napoli, la nascita delle Assemblee di Dio in Italia (1947), l’acquisto di immobili per il culto (1948) e la svolta dell’azienda Melluso–Anastasio, non furono eventi paralleli, ma snodi interconnessi di un progetto più ampio — un progetto che, oggi, merita di essere riletto con gli strumenti della storiografia critica, libera da vincoli apologetici.
Ad ogni modo, tornando alla somma investita in Italia, è necessario precisare che i calcoli qui esposti sono stati volutamente elaborati per difetto, al fine di mantenere una stima prudente. In realtà, secondo le fonti consultate e sulla base delle proiezioni sul potere d’acquisto attuale, tale somma potrebbe tranquillamente corrispondere all’equivalente di oltre tre milioni di euro【nota 7】 È opportuno, a tal riguardo, richiamare l’attenzione sul termine utilizzato: non ho parlato né di «donazione» né di «prestito», bensì di «investimento» — ed è questo, non altri, il termine che fu utilizzato formalmente nei documenti ufficiali delle Assemblies of God statunitensi, redatti in modo chiaro e inequivocabile.
Anche questo è un dettaglio tutt’altro che marginale. In ambito economico, infatti, un investimento implica necessariamente la previsione di un ritorno, la trasformazione di una somma in capitale fruttifero: ciò presuppone utili, controllo e strutture idonee a garantire un rientro — diretto o indiretto — del capitale. Ed è proprio qui che si aprono interrogativi di natura più profonda, i quali travalicano l’ambito religioso per abbracciare le logiche della geopolitica, dell’economia e dell’influenza sovranazionale.
- Che cosa ci hanno guadagnato le Assemblies of God americane in questa operazione mirata alla costituzione delle “Assemblee di Dio in Italia”?
- Sono state le uniche beneficiarie dell’investimento o esisteva un circuito più ampio, composto da attori invisibili e gerarchie parallele, che ha tratto vantaggio dall’operazione?
- Da dove provenivano realmente quei fondi, considerando che Henry H. Ness, in quel periodo, non versava in condizioni economiche floride — come risulta tanto dalla corrispondenza privata quanto dalla contabilità interna dell’università da lui fondata, documenti entrambi in mio possesso?
- E ancora: chi sono i veri titolari del “patrimonio giuridico” delle Assemblee di Dio in Italia (ADI)?
- A quale entità superiore, eventualmente, risponde il “Consiglio Generale delle Chiese”, anche laddove vi fosse un solo referente legato a poteri estranei al mondo evangelico?
Domande scomode, certo, ma necessarie. Domande che la storiografia ufficiale ignora, e che attendono ancora oggi risposte documentate e intellettualmente oneste.
La cosa certa è che un investimento di tale entità non poteva essere semplicemente ricambiato con un pio «Grazie, Dio vi benedica!». Sarebbe quantomeno ingenuo pensare che la macchina organizzativa americana, capillarmente strutturata e proiettata verso una penetrazione sistematica del territorio italiano, non si attendesse un ritorno strategico. Sorge dunque spontanea una domanda fondamentale: che cosa furono chiamati a restituire i pentecostali italiani in cambio di quel fiume di denaro? È proprio qui che la storia del pentecostalismo italiano si fa particolarmente interessante e, al contempo, inquietante. Insisto:
- Da dove proveniva realmente quella montagna di denaro? Quali relazioni effettive intratteneva Henry H. Ness con figure come Frank B. Gigliotti?
- Quali i suoi legami con gli apparati d’intelligence, con le logge massoniche — siano esse della P1 o della successiva P2 — e, in ipotesi, con personaggi della criminalità organizzata di calibro internazionale come Lucky Luciano, notoriamente legato allo stesso Gigliotti?
Interrogativi più che legittimi, che impongono riflessione e ricerca, anziché indignazione o automatismi apologetici.
Non va dimenticato che proprio in quegli anni, Lucky Luciano — già considerato il vertice della mafia italoamericana — veniva estradato dagli Stati Uniti e si stabiliva, non in Sicilia, sua terra d’origine, ma a Napoli: città in cui, per una significativa coincidenza, si insediavano nel frattempo importanti basi militari americane e infrastrutture strategiche della NATO. La stessa Napoli che, sebbene meno celebrata, ha rappresentato il vero centro propulsore del pentecostalismo italiano, mai realmente radicato a Roma, se non formalmente.
Lucky Luciano — secondo alcune fonti, coinvolto in operazioni parallele legate alla CIA — si stabilì nel quartiere Vomero, allora elegante e residenziale, sede di villini in stile liberty e dimora di classi agiate. Morirà per infarto nel 1962, sempre a Napoli, esattamente quindici anni dopo quel celebre convegno pastorale, tenutosi nella stessa città, che aveva sancito la nascita delle Assemblee di Dio in Italia.
E ancora una volta, guarda caso, i convegni fondamentali per la definizione e lo sviluppo della struttura pentecostale italiana si tennero quasi sempre a Napoli: la città in cui sorgeva la sede dell’azienda Melluso, che — secondo testimonianze coeve — non conobbe alcun ostacolo né interferenza da parte della criminalità organizzata. Anzi, proprio nei primi anni dalla sua fondazione, tale azienda mise a disposizione i propri locali per ospitare eventi nazionali delle ADI. Una collaborazione spontanea? Un gesto altruistico? O qualcosa di più strutturato?
A questo punto, il numero di coincidenze diventa tale da non poter più essere rubricato alla voce «casualità». E quando la narrazione ufficiale tace, la domanda storica — quella vera, libera, e documentata — deve alzare la voce. Perché non è più chi domanda che deve giustificarsi, ma chi ha nascosto per decenni la complessità dei fatti.
Durante il suo prolungato soggiorno nella città di Napoli, è lecito interrogarsi se Charles “Lucky” Luciano sia mai venuto a contatto diretto con le comunità pentecostali locali, oppure se, come sostenuto da Alessandro Iovino, anch’egli — similmente a Licio Gelli — ignorasse del tutto l’esistenza stessa degli evangelici. Una tale affermazione, pronunciata pubblicamente da colui che si presenta come esperto di storia pentecostale (e che, giova ricordarlo, è nipote di Alfonso Melluso e Salvatore Anastasio, nonché congiunto per vincolo matrimoniale della famiglia Melluso), appare oggettivamente ardua da sostenere, se non altro per il suo livello di implausibilità storica. Essa può essere verificata nel video in questione, nel segmento compreso tra il minuto 10:00 e l’11:00.
Affermare che un personaggio come Licio Gelli — figura di snodo tra massonerie deviate, logge internazionali, apparati di intelligence e strutture paramassoniche transnazionali — ignorasse l’esistenza stessa degli evangelici, appare non solo storicamente infondato, ma anche offensivo dell’intelligenza comune, oltre che lesivo della memoria storica documentata. È sufficiente citare gli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, presieduta dall’onorevole Tina Anselmi, per riscontrare che Licio Gelli aveva contatti precisi e strutturati con ambienti evangelici e pentecostali. In particolare, emergono rapporti con figure di spicco come Frank Bruno Gigliotti — colui che, secondo numerose fonti, avrebbe avuto un ruolo attivo nel suo reclutamento — e con Charles Fama, entrambi esponenti di vertice del circuito evangelico statunitense e associati alla loggia P2. [QUI], [QUI], [QUI]
Alla luce di tali dati, risulta legittimo chiedersi come mai Alessandro Iovino abbia rilasciato un’affermazione tanto clamorosa, che appare in palese contraddizione con fonti istituzionali e accertamenti parlamentari. Viene spontaneo domandarsi se tali dichiarazioni siano frutto di disinformazione, di superficialità nella consultazione delle fonti, o se rispondano a una strategia più sottile volta ad attenuare, dissimulare o depistare.
Tanto più paradossale appare la cosa se si considera che, nello stesso volume dedicato a Licio Gelli — significativamente intitolato Il burattinaio d’Italia — Iovino attribuisce all’ex venerabile un ruolo sovradeterminante nella vita politica e sociale del Paese. Ma come potrebbe essere stato “burattinaio d’Italia” un uomo che, a detta dello stesso autore, ignorava persino l’esistenza di una delle comunità religiose più in espansione del secolo scorso? Si tratta di una palese incongruenza logica che rischia di minare la credibilità dell’intera ricostruzione.
Personalmente, ho più volte cercato di comprendere le ragioni di questa affermazione: mi sono chiesto se si trattasse di una gaffe estemporanea, frutto di un’impreparazione momentanea, o se invece fosse il sintomo di una più ampia strategia di gatekeeping narrativo. Non è dato saperlo. Ma a giudicare dalla gravità dell’affermazione — e dal suo potenziale impatto sulla percezione pubblica della storia pentecostale — resta più che legittimo chiedersi: Iovino «ci è o ci fa»? È vittima di un’ingenuità storiografica oppure esecutore consapevole di una linea dettata da ambienti superiori?
Che Charles “Lucky” Luciano e la Mafia siciliana abbiano giocato un ruolo determinante nello sbarco delle truppe alleate in Sicilia nel 1943 è un dato storico tanto evidente quanto documentato. Parimenti, è ormai acclarato che la cerniera strategica tra l’ambiente mafioso e quello militare-intelligence statunitense fu costituita da strutture massoniche e apparati dei servizi segreti, operanti spesso al di sopra delle istituzioni ufficiali.
In che modo tali dinamiche si intreccino con la nascita e l’affermazione delle «Assemblee di Dio in Italia» (ADI) costituisce un nodo storico di primaria rilevanza, sviluppato e approfondito nella sezione dedicata: «1943–1946: Sbarco degli “Alleati” e fine della persecuzione».
3. Le Assemblee Generali delle «Assemblee di Dio in Italia»
Una doverosa parentesi merita d’essere aperta in merito alle vicende legate ai convegni nazionali amministrativi delle «Assemblee di Dio in Italia» (ADI), che nel tempo, secondo quanto previsto dallo Statuto, assumeranno la denominazione ufficiale di «Assemblee Generali». Se si procede a uno studio analitico di ciascuno di questi convegni, ci si accorge che tutti quelli strategici e decisivi per l’evoluzione della denominazione ADI non si sono mai tenuti a Roma, come si potrebbe ingenuamente supporre, bensì sempre e solo nella città di Napoli. E questo dato permane anche nel corso delle due presidenze romane: quella di Umberto N. Gorietti e quella di Francesco Toppi.
Dobbiamo considerare tale costante geografica come una pura coincidenza? Oppure si impone l’interrogativo più scomodo e insieme più plausibile: che il vero centro decisionale delle ADI sia sempre stato Napoli, al di là della facciata ufficiale romana? Valga, a tal proposito, un sintetico elenco esemplificativo:
- Il Convegno (poi definito Assemblea Generale) del 1946, a cui partecipò Henry H. Ness, si tenne a Napoli. Fu in questa occasione (dal 28 settembre al 1° ottobre) che Ness incontrò personalmente, per la prima volta, i calzolai pentecostali partenopei Alfonso Melluso e Salvatore Anastasio, già conosciuti, tuttavia, dal pastore Herman Parli, suo fidato referente, che aveva già ampiamente relazionato Ness su di loro.
- Il Convegno del 1947, nel quale fu costituita ufficialmente l’associazione religiosa denominata «Assemblee di Dio in Italia», si svolse a Napoli.
- L’Assemblea Generale del 1950, che segnò il passaggio dal Comitato Esecutivo al Consiglio Generale delle Chiese, fu convocata a Napoli.
- L’Assemblea Generale del 1957, in cui si affrontarono temi di riorganizzazione economico-strutturale come la creazione di un sistema assicurativo per i ministri di culto (che diverrà in seguito il Fondo FIDEA), si svolse ancora una volta a Napoli.
- L’Assemblea Generale del 1977, che segnò le dimissioni del primo presidente Umberto N. Gorietti e l’elezione del suo successore, Francesco Toppi, si tenne a Napoli.
- L’Assemblea Generale del 1978, in cui furono approvati il nuovo Statuto annotato, il Regolamento interno delle ADI e la lista preliminare degli argomenti da includere nella futura Intesa con lo Stato italiano, fu anch’essa celebrata a Napoli.
- Tutte le Assemblee Generali dal 1979 al 1989, di importanza cruciale per la strutturazione interna dell’ente in vista della sottoscrizione dell’Intesa con la Repubblica Italiana, si svolsero ininterrottamente presso il Centro Comunitario Evangelico di Roccamonfina (Caserta). Una sede non casuale, poiché — come ben noto all’interno del circuito ADI — si tratta di un luogo fortemente legato alla galassia familiare napoletana Melluso–Anastasio–D’Alessandro, con vincoli rinforzati anche da alleanze matrimoniali e legami imprenditoriali.
Una lunga serie di «coincidenze» che si accumulano — e che, forse, tali non sono affatto.
Si consideri, a titolo esemplificativo, quanto scrisse nel 1991 lo storico presidente delle «Assemblee di Dio in Italia», Francesco Toppi, con una nota di stupore non disgiunta da un velato senso di trionfo istituzionale:
«Erano ben 38 anni, dal lontano 1953, che l’Assemblea Generale delle A.D.I. non si svolgeva più a Roma» (Cristiani Oggi, Anno X, n. 10, 16–31 maggio 1991, p. 6).
Un’affermazione che, letta tra le righe, sembra contenere un sottinteso riconoscimento del fatto che la capitale effettiva della denominazione, quantomeno per quanto concerne le scelte strategiche e le dinamiche di potere, sia stata altrove. C’è ancora qualcuno che non abbia colto dove si trovi — o si sia stabilita per decenni — la vera cabina di regia delle «Assemblee di Dio in Italia»?
In epoche più recenti, si può osservare come l’Assemblea Generale del 2007, che sancì l’elezione di Felice Antonio Loria alla presidenza al posto di Francesco Toppi (nominato emerito), si sia tenuta anch’essa, immancabilmente, a Napoli.
L’unica eccezione — almeno in apparenza — a questa costante geografica si riscontra nell’Assemblea Generale del 2019, in occasione della quale Gaetano Montante fu eletto presidente. Questa si svolse infatti in Toscana, a Chianciano Terme (Siena), in prossimità della sede della Tesoreria Generale delle ADI, la cui giacenza, da decenni, è custodita presso una filiale della Banca del Monte dei Paschi di Siena — istituto al centro di numerose inchieste giornalistiche e giudiziarie che hanno messo in luce antichi legami con ambienti massonici. È forse irrilevante questo spostamento improvviso? Un semplice cambiamento logistico? Oppure, come alcuni osservatori ritengono, un indizio di un diverso centro di gravità, seppur temporaneo, del potere reale all’interno della denominazione? Un’ipotesi interpretativa esiste, e potrà essere proposta a tempo debito.
Ciò che, tuttavia, si impone all’attenzione di chi intenda leggere la storia con occhio critico, è che tutte le Assemblee Generali in cui sono stati eletti presidenti ADI si sono svolte a Napoli — fatta eccezione, appunto, per l’ultima. È forse un caso? È normale che tutte le decisioni strutturali più rilevanti nella storia della denominazione siano maturate e formalizzate in un’unica città?
Domande legittime. Ma, come sempre, siamo invitati a credere che si tratti soltanto di una lunga catena di «coincidenze».
4. Napoli: capitale del pentecostalismo italiano
Appare ormai evidente, se si analizzano i dati storici con occhio disincantato e metodo comparativo, che la vera capitale del pentecostalismo italiano non sia mai stata Roma, né tantomeno la Sicilia, pur ospitando quest’ultima la più alta concentrazione di pentecostali sul territorio nazionale. La cabina di regia effettiva, ovvero il centro decisionale e strategico da cui sono scaturite le principali direttive ecclesiastiche, economiche e organizzative della denominazione, è sempre stata Napoli.
A Roma, in via dei Bruzi, ha avuto sin dall’inizio sede legale la denominazione delle «Assemblee di Dio in Italia», come richiesto dallo statuto e per motivi formali connessi al riconoscimento giuridico. Tuttavia, il potere operativo e simbolico — quello che orienta le scelte, decide le nomine e gestisce i flussi economici — ha avuto sede a Napoli. Non è un’opinione, ma una costante documentata.
E ciò che più colpisce è che tale verità, spesso sottaciuta o ignorata negli ambienti ufficiali, venga riconosciuta e affermata pubblicamente da Giorgio Bouchard, pastore valdese di lungo corso e in odore di appartenenza a circuiti massonici, già presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI). In un articolo pubblicato nel luglio del 2014 su un numero del settimanale protestante «Riforma», in occasione della presentazione del libretto agiografico scritto da Alessandro Iovino sulla vita di Alfonso Melluso, Bouchard indica esplicitamente Napoli come capitale storica del movimento pentecostale italiano.
Una dichiarazione che, oltre a confermare quanto finora esposto, solleva interrogativi significativi:
- Per quale motivo un esponente di spicco del protestantesimo storico, appartenente a un orientamento teologico distante e talora ostile al pentecostalismo, sente il bisogno di riconoscere tale centralità proprio in quella sede?
- E perché proprio in occasione di un evento celebrativo legato alla famiglia Melluso, protagonista silenziosa — ma non secondaria — delle origini dell’assetto economico e logistico delle ADI?
Domande che attendono ancora risposte, ma che indicano con chiarezza quanto profondo e strutturato sia il legame tra Napoli, la massoneria e la costruzione del pentecostalismo italiano come fenomeno organizzato e non più soltanto spirituale.
Sia chiaro, anzitutto, che tutti i personaggi citati — viventi e defunti — risultano legati, direttamente o indirettamente, a circuiti massonici, o quantomeno inseriti in contesti in cui tali legami erano notoriamente presenti. A titolo esemplificativo — e non esaustivo — si può ricordare che nel già menzionato articolo pubblicato nel luglio 2014 sul settimanale protestante «Riforma», a firma di Giorgio Bouchard, compare un passaggio sorprendente, passato finora pressoché inosservato: l’ex presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) ci tiene a fare sapere che i Rockefeller finanziarono la diffusione del pentecostalismo in Brasile.
Ora, è lecito domandarsi:
- Per quale motivo Bouchard — in un articolo che dovrebbe riguardare esclusivamente la figura di Alfonso Melluso e la presentazione del volumetto biografico a lui dedicato — introduce un’informazione di tale portata geostrategica, apparentemente fuori contesto?
- Trattasi forse di una allusione velata — o meglio, di un messaggio in codice per “iniziati” — circa il ruolo esercitato dalla stessa dinastia Rockefeller anche nella genesi del pentecostalismo italiano, schermato, si potrebbe ipotizzare, dall’azienda Melluso, presentata come struttura di riferimento?
- Del resto, i Rockefeller, la più influente tra le famiglie dell’élite bancaria sionista ashkenazita, non agiscono mai senza uno scopo funzionale alla loro visione geopolitica e religiosa. Quale sarebbe, dunque, l’interesse — storico, culturale, politico o spirituale — nel finanziare il pentecostalismo brasiliano? E, per traslazione, anche quello italiano?
- E qui torna prepotentemente in scena Henry H. Ness, fondatore delle «Assemblee di Dio in Italia» e figura centrale di tutta questa narrazione. Ness fu infatti dirigente della Standard Oil, la potentissima compagnia petrolifera di proprietà dei Rockefeller, ai quali vendette la propria azienda farmaceutica traendone significativi profitti. È forse in questa dinamica che va cercata la chiave interpretativa dell’intera operazione “evangelizzazione pentecostale dell’Italia”?
Ulteriori domande sorgono spontanee:
- I Rockefeller continuano ancora oggi a sostenere — anche indirettamente, mediante ONG o fondazioni filantropiche — la diffusione globale del pentecostalismo, specialmente nei paesi strategici come il Brasile, l’Italia, le Filippine, la Nigeria e altri?
- Quali vantaggi ne traggono?
- Sono coinvolti in questo disegno anche altri attori, come il controverso G. Soros, spesso indicato come braccio operativo di una visione post-cristiana e tecnocraticamente spiritualista del mondo protestante?
Infine, merita un’attenzione particolare l’espressione che Bouchard usa per definire Napoli, città di Alfonso Melluso:
«la capitale morale del pentecostalismo italiano».
Un’espressione apparentemente elogiativa, ma che può essere letta anche come una dichiarazione cifrata, un linguaggio da iniziati, una codificazione per addetti ai lavori. Che cosa intende realmente Bouchard con «capitale morale»? Forse che Napoli rappresenta il punto nevralgico del potere pentecostale in Italia, e che la famiglia Melluso ne è stata, e forse lo è ancora, il referente ufficiale, il terminale visibile di un sistema ben più ampio?
Non dimentichiamo, infatti, che in numerose ricostruzioni storiografiche non ufficiali, ai Rockefeller è stato attribuito il controllo del protestantesimo mondiale, e in particolare del pentecostalismo, tramite organismi paralleli e referenze locali. Se così fosse, Napoli sarebbe allora — più che la capitale “morale” — la capitale “operativa” o “occulta” del pentecostalismo italiano, non solo in termini spirituali o pastorali, ma anche e soprattutto economici, simbolici e direzionali.
5. La biografia di A. Melluso, il giovane saggio del pentecostalismo italiano
Il libretto biografico redatto da Alessandro Iovino su Alfonso Melluso, e pubblicato con intento agiografico, presenta già nel suo stesso titolo un riferimento degno di nota sotto il profilo simbolico. La definizione «giovane saggio» — al netto del significato letterale — risuona con singolare forza tra le pieghe del linguaggio esoterico.
Nel vocabolario iniziatico, l’aggettivo «saggio» o «savio» designa colui che ha acquisito la conoscenza segreta, la sapientia occulta, spesso definita anche come «pietra ritrovata». Tale figura corrisponde, nelle tradizioni sapienziali antiche, al «filosofo ermetico», all’iniziato, all’eletto. Si ritrova presso Platone, Pitagora, ma anche nell’ermetismo cristiano, nella Kabbalah ebraica, nella massoneria moderna e nei testi fondativi del sionismo spiritualista.
Il parallelismo più suggestivo è però quello con l’opera intitolata «I Protocolli dei Savi Anziani di Sion» — il cui titolo, al di là della contestazione storiografica, resta una matrice discorsiva ineludibile. Lì si parla dei «savi anziani» del popolo eletto; qui, invece, Iovino ci propone il ritratto di un “giovane saggio”, che sembra porsi in continuità simbolica e retorica con quella tradizione.
Savi anziani e savi giovani: una continuità iniziatica? Un rimando cifrato? Un omaggio simbolico?
Se questo sia voluto o meno, non ci è dato sapere. Ma che l’intera costruzione narrativa che ruota attorno ad Alfonso Melluso sia densa di simbologie, di allusioni e di riferimenti stratificati, appare ormai difficilmente contestabile.
E se — alle origini del movimento pentecostale — i credenti italiani ignoravano del tutto l’esistenza dei famigerati «Protocolli dei Savi Anziani di Sion», è invece certo che, già cento anni fa, i pentecostali americani ne erano pienamente a conoscenza. Anzi, non si limitarono a denunciarne il contenuto, ma li identificarono apertamente come un’opera di matrice demoniaca e massonica, volta a predisporre l’opinione pubblica globale alla futura manifestazione dell’anticristo.
Una prova inconfutabile di questa posizione si rinviene in una pagina del 1920 del Pentecostal Evangel, organo ufficiale delle Assemblies of God USA, in cui si prendeva esplicitamente posizione contro tale testo, ritenuto un sofisticato strumento di propaganda occulta finalizzato alla sovversione dell’ordine spirituale e morale. Il documento in questione non lascia spazio a equivoci: l’interpretazione che vi si dà dei «Protocolli» è chiara, inequivocabile e totalmente avversa, fondata su una lettura escatologica e spiritualmente militante.
È dunque lecito domandarsi:
- Come si spiega il netto mutamento di paradigma che ha avuto luogo nel corso dei decenni all’interno delle stesse Assemblee di Dio americane?
- Se allora quei testi venivano interpretati come una strategia massonica e pre-apocalittica, oggi come vengono considerati — quando non vengono semplicemente ignorati o silenziati?
La domanda, pur nella sua apparente semplicità, è teologicamente e storicamente gravida:
- Mentivano allora, oppure mentono oggi?
E, in ogni caso, a beneficio di chi e in nome di quale agenda?
Domande scomode, certamente. Ma doverose per chi non si accontenta della narrazione ufficiale e intende leggere la storia — anche quella pentecostale — nella sua dimensione più profonda, strategica e profetica.
Conclusione
Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla –Edmund Burke
Sinceramente, vi sarebbe ancora moltissimo da scrivere. Ma, per i limiti propri del genere articolare, ho scelto di limitarmi all’esposizione di pochi fatti salienti — perlopiù inediti — e di alcune opinioni basate sui fatti, che ho ritenuto opportuno condividere al fine di stimolare l’interesse, sollecitare interrogativi, e soprattutto spronare gli studiosi più seri a indagare la vera verità storica. La storia del pentecostalismo italiano, infatti, quella autentica e non edulcorata, è ancora tutta da scrivere.
La narrazione che ci è stata trasmessa nei volumi pubblicati sino ad oggi si colloca interamente nel registro agiografico, se non addirittura nel mito: un racconto armonico e accomodante, spesso più vicino alla propaganda che alla ricostruzione storica, in cui ogni voce dissonante viene accuratamente silenziata. Non si tratta di un difetto isolato, bensì sistemico, poiché la quasi totalità degli scritti — chi più, chi meno — dipende direttamente o indirettamente dalla prospettiva faziosa di Francesco Toppi.
E non parlo soltanto delle pubblicazioni interne al circuito pentecostale, che comprensibilmente hanno tutto l’interesse a occultare i passaggi più scomodi e controversi della propria genesi, ma anche di quei soggetti che si presentano come super partes — valdesi, metodisti, cesnuriani — e che si sono rivelati, in più di un’occasione, complici silenziosi dello stesso impianto narrativo. In realtà, tutti costoro rispondono alla medesima cabina di regia. Il risultato? Sempre la stessa stanca e ammuffita filastrocca, ripetuta fino alla nausea come dogma da non mettere mai in discussione.
Quando, mi chiedo, ci sarà uno storico autenticamente libero, metodologicamente onesto, e intellettualmente coraggioso, disposto a mettere in discussione l’intera impalcatura? Quando potremo leggere una storia delle ADI capace di illuminare anche le zone d’ombra, i silenzi imposti, le ambiguità fondative, e i rapporti opachi con poteri estranei al Vangelo?
Pochi giorni fa, ho avuto uno scambio — a tratti surreale — con l’autoproclamato «esperto di pentecostalismo» Alessandro Iovino. Ebbene, costui non ha mai portato alla luce un solo documento inedito, non ha mai prodotto alcuna indagine d’archivio autonoma, non ha mai rivelato fatti che abbiano costretto a un solo revisionismo storiografico degno di tal nome. Eppure, forte dell’appoggio di certi circuiti — di chiara impronta esoterico-massonica — ostenta un’autorità che non ha, millanta una competenza che non possiede, e perpetua una narrazione costruita a tavolino per finalità di controllo ideologico.
In tutta onestà, sino ad oggi, non ho letto alcun contributo veramente rigoroso, documentato e indipendente sulla genesi del pentecostalismo italiano. Ma, come si suol dire, la speranza è l’ultima a morire.

Forse è anche in virtù di tale consapevolezza che — secondo alcune segnalazioni — presso l’Istituto Biblico Italiano, dopo decenni, l’insegnamento della storia del movimento pentecostale sarebbe stato progressivamente declassato o marginalizzato. Non lo so con certezza, né francamente m’interessa approfondire. Tuttavia, una cosa è certa: per scrivere la storia non bastano retoriche identitarie o compilazioni autoreferenziali. Servono documenti. E i documenti esistono, credetemi. Vanno solo cercati, con pazienza e determinazione.
Tutto ciò che ho scritto in queste pagine è perfettamente documentato. Per mia precisa scelta, tuttavia, non ho allegato qui i materiali d’archivio, né intendo farlo in questa sede. Ciò che si ottiene senza sforzo, spesso non viene valorizzato. Ed è per questo che ho preferito riservarmi la possibilità di rendere accessibile la documentazione solo in contesti adeguati, e a chi ne farà onesta e legittima richiesta. Del resto, ciò che nasce da fatica, studio e sudore vale più di mille dispense gratuite.
Passiamo dunque a qualche consiglio per i ricercatori sinceramente interessati alla verità storica.
Sappiano costoro che la consultazione degli archivi delle ADI e di altre denominazioni può costituire una tappa utile, ma non esaustiva. Si pensi, ad esempio, alle corrispondenze private di Roberto Bracco o di Umberto Gorietti. Tuttavia, se tali archivi non sono accessibili, ciò non deve costituire un alibi per l’inazione. Bisogna proseguire oltre, cercando negli archivi civili e notarili e in quelli Vaticani, negli atti catastali e nelle fonti estere.
Nel caso specifico di Henry H. Ness (o Nesh), ad esempio, il grosso della documentazione non si trova né negli archivi delle ADI né presso i suoi eredi — che peraltro contattai anni fa —, ma è reperibile in loco: a Seattle, a Washington D.C., e anche in Italia (Roma, Napoli, Catania), in Portogallo, e potenzialmente anche in Norvegia, terra natia della famiglia Ness. Non basta cercare su Internet: è necessario muoversi fisicamente, interrogare registri, incrociare dati, decifrare segnali.
Lo dico con chiarezza: chi ha occhi per vedere, nel presente articolo troverà indicazioni preziose disseminate con cura. Chi ha orecchie per intendere, intenda. Chi desidera riciclare pigramente il lavoro altrui, sappia che l’opera storica — quella vera — non si improvvisa. Bisogna sudarsela.
Il mio auspicio è che qualcuno — magari un giovane ricercatore, privo di legami organici con il sistema — si decida finalmente a fare sul serio: a indagare, a verificare, a mettere insieme i tasselli. A raccontare una storia del pentecostalismo italiano che sia autenticamente veritiera: fatta di luci (poche) e di ombre (molte), narrata con imparzialità, rigore e profondità.
Naturalmente, ciò richiede requisiti non comuni: onestà intellettuale, metodo critico, indipendenza di giudizio, intuito ermeneutico e — qualità essenziale — una conoscenza vissuta, diretta, intima, del mondo pentecostale. Solo chi ha conosciuto tale ambiente dal di dentro può decifrarne appieno le logiche non dette, le dinamiche occulte, i segnali mimetici.
Occorrono anche nuovi documenti. Occorre — e non mi stancherò di ripeterlo — disporre di materiali ancora inediti. E questi materiali esistono. Sono molti. E attendono solo di essere portati alla luce. Chissà che le Assemblee di Dio e le altre denominazioni pentecostali non decidano, un giorno, di aprire i loro archivi. D’altra parte — si afferma con disinvoltura — «non hanno nulla da nascondere», giusto?
Nel frattempo, la vera storia del pentecostalismo italiano resta ancora da scrivere. E, per raccontarla integralmente, senza omissis né reticenze, non basterà un volume: ne serviranno diversi, articolati, cronologicamente suddivisi, e fondati su fonti solide.
Le vite di Henry Hamilton Ness (Nesh) e Frank Bruno Gigliotti — due figure centrali nella fondazione delle ADI — furono così dense, complesse, drammatiche e stratificate che meriterebbero, a mio giudizio, persino una trasposizione cinematografica. E lo affermo senza alcuna ironia. Perché la storia delle ADI — se liberata dalle sue rimozioni e dalle sue retoriche — è affascinante, contraddittoria, paradossale, intrecciata con la storia d’Italia, degli Stati Uniti, dell’Europa, e dell’intero dopoguerra.
E non si potrà comprendere nulla di tutto ciò, se non si farà luce anche sulla figura di Hermann Parli (1916–1998): il vero «uomo-pontiere», l’«apripista» incaricato di preparare il terreno per l’ingresso di Henry H. Ness tra i pentecostali italiani. Parli fu il suo interprete, il suo emissario, il suo fiduciario. Ed era anch’egli inserito in circuiti non trascurabili.
Quanto alla fotografia allegata, chi avrà occhi per osservare vi scorgerà più di un simbolo. Il resto — come sempre — è affidato a chi ha desiderio di sapere.
Buon lavoro, ricercatori.
copyright di F. Chinnici
Note
1. I primi agenti (costruttori) che H. Ness utilizzò per la costruzione delle “Assemblee di Dio in Italia” furono davvero una manciata: Vincenzo Federico, Rosario Di Palermo (Sicilia), Salvatore Anastasio (Campania), Umberto Gorietti e Roberto Bracco (Roma). Vi sono seri indizi ed elementi concreti per ipotizzare che con molta probabilità almeno quattro di loro fossero stati cooptati in massoneria. (Torna su)
2.Non si deve commettere l’errore, tanto diffuso quanto ingenuo, di sovrapporre la figura del farmacista dei primi decenni del Novecento a quella odierna. Si tratta, in realtà, di due professioni profondamente distinte per formazione, per funzioni e per impianto epistemologico. La storia della farmacologia, sospesa tra scienza sperimentale e residui sapienziali, ha attraversato fasi plurime: da quella alchemica, intrisa di simbolismo e ritualità, a quella chimica, regolata dalla riproducibilità empirica e dal principio attivo. Non è un caso che il termine greco φάρμακον (phármakon) designasse originariamente una sostanza ambivalente, capace di guarire o avvelenare, e che il suo derivato φαρμακεία (pharmakeía) fosse associato nell’antichità — come nelle Scritture — a pratiche magico-sacrali, incantesimali e persino demoniache (cfr. Galati 5,20; Apocalisse 18,23). La Bibbia, in particolare, utilizza pharmakeía in senso fortemente negativo, associandola alla stregoneria, alla seduzione spirituale e alla perdizione idolatrica, come attestano sia la Settanta che il greco koinè del Nuovo Testamento. Tale semantica duplice — cura e inganno, terapia e sortilegio — attraversa per intero la lunga vicenda della farmacologia occidentale.
Un esempio illustre della medicina erboristica d’età imperiale è offerto da Pedanio Dioscoride, medico, botanico e farmacologo greco, attivo nel I secolo d.C. presso la corte di Nerone. La sua opera De materia medica costituì per secoli un pilastro insostituibile della farmacopea greco-latina, rielaborata più volte nel Medioevo e nel Rinascimento. Ma è solo tra Otto e Novecento che la farmacia occidentale conosce una profonda mutazione: si passa infatti da una prassi ancora artigianale — fondata su preparazioni manuali, competenze botaniche e ricettari manoscritti — a una produzione centralizzata, industriale, razionalizzata secondo criteri economico-finanziari.
Protagonista di questa svolta fu la famiglia Rockefeller, che tra il 1900 e il 1940 passò dalla supremazia nel settore petrolifero a un controllo capillare del nascente settore farmaceutico. È noto come John D. Rockefeller, ispirandosi al padre — figura ambigua e controversa, incline al millantato credito e alla vendita di rimedi pseudoterapeutici — intuì l’enorme potenziale economico della medicina industriale. La sua strategia si concretizzò con l’istituzione della Rockefeller Foundation (1913), della General Education Board, e con il sostegno finanziario al celebre Rapporto Flexner (1910), redatto per la Carnegie Foundation, che determinò la chiusura di centinaia di scuole di medicina indipendenti. Il paradigma terapeutico veniva così riformulato su base biochimica, monopolizzato da università private selezionate e affidato all’egida dell’American Medical Association, controllata in parte dagli stessi interessi fondazionali.
In questo contesto si colloca anche la modesta attività farmaceutica di Henry H. Ness, che visse e lavorò nel mezzo di questa trasformazione epocale. Va ricordato che, fino al 1925, i corsi di farmacia negli Stati Uniti duravano due o tre anni e richiedevano solo il completamento dell’istruzione primaria. Dopo tale data, gli standard furono elevati: il ciclo divenne quadriennale e venne richiesto il diploma di High School. Tuttavia, la formazione rimaneva in buona parte pratica e multidisciplinare: si studiavano la chimica applicata, la botanica farmaceutica, la farmacognosia, la legislazione sanitaria e — non di rado — anche il latino, indispensabile per l’uso delle ricette.
Le farmacie dell’epoca erano generalmente articolate in due ambienti: un laboratorio interno, dove il farmacista preparava medicamenti, unguenti, distillati, polveri e sciroppi; e un ambiente esterno, aperto al pubblico, dove si esponevano vasi in vetro, erbe officinali e droghe vegetali. La professione richiedeva, in sintesi, una solida padronanza di tecniche estrattive, conoscenze di fitoterapia, elementi di chimica analitica e dimestichezza con le Farmacopee ufficiali — raccolte normative fornite dallo Stato — ma anche con i ricettari privati, spesso manoscritti, che tramandavano saperi empirici, formule segrete e preparazioni extrafarmaceutiche (inchiostri, coloranti, dolciumi, pirotecnia…).
In quegli stessi anni, i Rockefeller e altri gruppi di potere iniziarono ad acquisire migliaia di farmacie e laboratori indipendenti, assorbendoli in una rete capillare che avrebbe portato alla nascita di colossi farmaceutici internazionali. Fu l’inizio della trasformazione dell’arte farmaceutica in industria del farmaco, e della cura in strumento di governance biopolitica. In altre parole, era l’alba della Big Pharma.
Fonti: https://aihp.org/wp-content/uploads/2018/12/AACP-D.pdf; https://cen.acs.org/articles/83/i25/PHARMACEUTICAL-GOLDEN-ERA-193060.html(torna su)
3. La radicale riconfigurazione della medicina occidentale, che dalla prima metà del Novecento in poi ha assunto i contorni di un paradigma industriale globalizzato, trova il proprio momento germinale nella figura emblematica di John Davison Rockefeller (1839–1937). Plutocrate di confessione battista, primo miliardario americano, fondatore dell’impero petrolifero Standard Oil e tra i padri dell’oligarchia corporativa moderna, Rockefeller incarnò un modello di espansione egemonica fondato sull’integrazione verticale delle industrie strategiche: petrolio, chimica, finanza, sanità.
Alla fine del XIX secolo egli controllava il 90% delle raffinerie petrolifere degli Stati Uniti. L’atomizzazione forzata della Standard Oil, imposta nel 1911 dalla Corte Suprema, diede origine a colossi come Exxon, Mobil e Chevron, che tuttora dominano il mercato. Ciò che meno si racconta, però, è il legame tra questo impero e l’origine della medicina moderna. Il padre di John, William Rockefeller, era noto per vendere «elisir miracolosi» e rimedi di dubbia efficacia — e tale esperienza giovanile si sarebbe rivelata determinante per l’orientamento futuro del figlio.
A cavallo tra XIX e XX secolo, la scoperta dei derivati petrolchimici — tra cui la Bakelite (1907), prima plastica sintetica — aprì scenari inediti. I laboratori iniziarono a isolare vitamine e principi attivi, scoprendo che da idrocarburi raffinati era possibile sintetizzare molecole farmacologiche stabili e replicabili. Per Rockefeller, tale rivoluzione costituiva l’occasione perfetta per fondere in un’unica strategia l’industria del petrolio, della chimica e della medicina.
Vi era però un ostacolo: la medicina naturale, omeopatica e botanica — eredità congiunta dell’Europa galenica e delle tradizioni dei nativi americani — era ancora largamente praticata negli Stati Uniti. Quasi metà dei medici e dei college erano orientati a un approccio olistico e personalizzato alla salute. Per sopprimere tale concorrenza, Rockefeller diede avvio a una strategia di controllo sistematico dell’informazione, della formazione e del mercato.
Il primo passo fu l’acquisizione, silenziosa ma sistematica, di farmacie e dispensari indipendenti — compresa, secondo fonti attendibili, anche quella gestita da Henry H. Ness. Il secondo passo fu l’applicazione di uno schema destinato a diventare un classico della strategia del controllo sociale: quello che oggi viene definito, in ambito critico, «problema–reazione–soluzione». Si tratta di un meccanismo sofisticato in tre fasi: generare un problema (reale o indotto), suscitare una reazione emotiva e politica nella popolazione, quindi offrire una soluzione preordinata che, in condizioni normali, non sarebbe stata accettabile. Questo schema — perfezionato all’inizio del XX secolo in campo medico — è stato ampiamente riprodotto anche nella storia recente.
Un esempio emblematico è rappresentato dalla promulgazione del Patriot Act negli Stati Uniti, successivamente agli attentati dell’11 settembre 2001. Il testo fu fortemente sostenuto da John David Ashcroft, Procuratore Generale degli Stati Uniti sotto la presidenza di George W. Bush, noto per essere un massone dichiarato e un pentecostale attivamente inserito in circuiti politici legati a strutture d’élite. La sua figura incarna una sintesi paradigmatica tra religiosità evangelica, tecnocrazia securitaria e affiliazione massonica — a conferma di come certi meccanismi strategici non siano confinati al passato, ma rappresentino una logica ricorrente nelle tecnologie del potere.
Anche nel caso di Ashcroft, la minaccia (il terrorismo), la reazione (il panico sociale) e la soluzione (l’architettura giuridica del controllo) vennero orchestrate secondo lo stesso paradigma operativo che Rockefeller aveva sperimentato decenni prima nel campo della medicina.
A questo punto Rockefeller si rivolse al magnate Andrew Carnegie, monopolista dell’acciaio, e insieme concepirono un piano destinato a rivoluzionare la formazione medica: fu così commissionato il Rapporto Flexner (1910), affidato ad Abraham Flexner e finanziato dalla Carnegie Foundation, con la regia ideologica delle fondazioni Rockefeller. Flexner visitò centinaia di scuole mediche negli Stati Uniti, producendo un dossier che proponeva la chiusura o la riforma della maggior parte di esse in nome dell’efficienza scientifica.
Il risultato fu la centralizzazione accademica della medicina, l’eliminazione dell’omeopatia e della medicina naturale, l’adozione forzata di un approccio biochimico basato sull’uso esclusivo di farmaci brevettabili. Le università ricevettero milioni di dollari in sovvenzioni, purché si allineassero al nuovo modello formativo. Rockefeller creò a tal fine la General Education Board (GEB), con l’obiettivo di uniformare l’insegnamento medico secondo i principi dell’industria. Nacque così lo slogan: «Una pillola per ogni male» — A pill for an ill — che diventerà il mantra della medicina contemporanea.
Parallelamente, milioni furono investiti nella ricerca farmacologica, ma con una logica precisa: identificare principi attivi vegetali, riprodurli sinteticamente in laboratorio con piccole modifiche molecolari tali da poterli brevettare — e quindi monetizzare. L’etica della cura venne soppiantata da un’etica del profitto, e la formazione medica cominciò a ignorare la nutrizione, l’erboristeria, la prevenzione. Il medico divenne sempre più prescrittore e meno terapeuta.
Nel 1913, Rockefeller fondò anche l’American Cancer Society, mentre il suo principale consigliere, il pastore battista Frederick T. Gates (1853–1929), organizzò le strutture che avrebbero retto l’intera impalcatura scientifica: il Rockefeller Institute for Medical Research (oggi Rockefeller University), la Rockefeller Foundation, e il China Medical Board, con l’intento di convertire la medicina missionaria in medicina industriale anche nei territori coloniali. Gates stesso, pur provenendo dall’ambiente religioso, considerava i missionari come intrappolati in una visione arretrata: per lui la Cina non era da evangelizzare, ma da integrare nel sistema del profitto medico globale.
Si chiude il cerchio con una citazione attribuita allo stesso John D. Rockefeller, che riassume la visione del mondo propria dell’oligarchia tecnocratica: «Non voglio una nazione di pensatori. Voglio una nazione di lavoratori». Ha ragione la Scrittura: «L’amore del denaro è la radice di ogni sorta di mali» (1 Timoteo 6:10). (torna su)
4.La razza giudeo-aschenazita Cazara (o kazhara) si proclama Ebrea ma non lo è. I Cazari aschenaziti non sono Giudei: A) né per fede, avendo ripudiato la Legge di Mosè, quindi l’ebraismo biblico, per aderire al Talmudismo (una religione basata sul Talmud) che essi stessi hanno creato mettendo per iscritto le antiche tradizioni orali rabbiniche che Gesù stesso condannò (cfr. Matteo 23); B) né per sangue non essendo originari della Giudea bensì dell’Asia centrale, dell’Europa centrale e dell’est, e più precisamente provenienti dalla Turchia e dalla Mongolia abitando un ampio territorio che coincide con l’attuale Ucraina e parte di Bielorussia, Polonia, Slovacchia, Ungeria, Romania e Moldovia. Aschenaz. Infatti, Aschenaz non era discendente di Sem, ma di Iafet (Ge 10:3; 1Cr 1:6). Essi erano un popolo sanguinario dedito persino al sacrificio di bambini già dall’antichità, e forse è per questo che la Bibbia li definisce «una sinagoga di Satana» (Ap 2:9; 3:9). La parola Cazaro o kazharo in turco significa «errante» e la stragrande maggioranza degli ebrei aschenaziti discendenti dal popolo Cazaro e che oggi sono quelli dell’alta finanza che controllano le banche (Rothschild, Warburg, Rockefeller, Morgan, Dupont, Soros, Lazard, Elkann, ma persino molte delle famiglie della così detta aristocrazia nera che da secoli controlla il Vaticano ecc.) proviene in pratica tutta da questa razza che nulla ha a che vedere con la Giudea e con i Giudei (Ap 2:9; 3:9). Essi sono i sionisti, la cabala, da cui gli Ebrei ortodossi hanno sempre preso le distanze. Inoltre va detto che John David Rockefeller – il burattinaio di Henry H. Ness -, non era solo un sionista aschenazita, comproprietario della Federal Reserve americana, magnate del petrolio e di Big Pharma, associato con i Rothschild e i Warburg nella creazione del fenomeno Hitler in Germania e in stretti legami con i Gesuiti, ma era anche un evangelico battista che ha donato milioni di dollari alle denominazioni evangeliche e che da sempre fa il burattinaio di molti movimenti e noti personaggi evangelici (cfr. John T. Flynn, “The Story of Rockefeller and his times”, Harcourt, Brace and Company, NY 1932, pp. 297-333; Kenneth W. Rose, “John D. Rockefeller, The American Baptist Education Society, and the Growth of Baptist Higher Education in the Midwest”, relazione del 1998 a cura del Rockefeller Archive Center). (torna su)
5. Figura tra le più controverse della storia repubblicana, Giulio Andreotti (1919–2013) è stato indubbiamente uno dei protagonisti indiscussi della vita politica italiana nella seconda metà del XX secolo. La sua biografia si dipana tra potere e ombre, lungo sentieri in cui — secondo quanto emerso da numerose inchieste, indagini e processi — si intrecciano servizi segreti, strutture mafiose e logge massoniche, in particolare la celebre (e famigerata) P2.
Non stupisce, pertanto, che tale personaggio — abilissimo nel coltivare relazioni trasversali, talora anche in ambienti religiosi ritenuti minoritari — abbia intrattenuto rapporti amichevoli con il mondo pentecostale delle “Assemblee di Dio in Italia” (ADI). Né sorprende il fatto che egli abbia addirittura redatto la prefazione alla tesi di laurea di Alessandro Iovino, giovane promettente dell’ambiente ADI, nipote di Alfonso Melluso e pronipote del ben noto Salvatore Anastasio: una genealogia significativa, che getta luce su reti familiari e religiose intrecciate a dinamiche di potere.
Il 25 novembre 1976, nella sua veste di Presidente del Consiglio dei Ministri, Giulio Andreotti annunciava pubblicamente l’intenzione di avviare trattative formali con le confessioni religiose evangeliche, in conformità all’articolo 8 della Costituzione. Meno di due mesi dopo, il 14 gennaio 1977, le ADI — unitamente alla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI), all’Ente Morale dell’Opera delle Chiese Cristiane dei Fratelli e ad altri organismi protestanti — ricevevano una comunicazione ufficiale a firma del senatore Guido Gonella, con la quale il Governo notificava l’istituzione di una commissione composta da tre membri avente il compito di, cito testualmente, «iniziare immediate e sollecite trattative» finalizzate alla stipula di un’Intesa, precisando altresì che «tale lavoro potrebbe svolgersi in una sala del Senato della Repubblica o in un altro luogo che possa essere preferito». Una disponibilità eloquente, che suona quasi come un invito diplomatico a considerare — simbolicamente o materialmente — anche altre sedi, magari quella romana di via dei Bruzi 11, o quella, ben più pregnante, di Napoli, presso gli ambienti legati alla storica azienda Melluso.
In tale cornice politica e istituzionale — a ben vedere tutt’altro che neutrale — si collocano anche due dimissioni rilevanti, entrambe avvenute proprio nel 1977: quella di Umberto N. Gorietti, allora presidente delle ADI, e quella di Salvatore Anastasio, influente pastore della comunità pentecostale napoletana. Entrambi furono prontamente sostituiti da soggetti appartenenti al medesimo circuito familiare: il primo da Francesco Toppi, nipote della moglie di Gorietti, il secondo da Daniele Melluso, discendente della famiglia calzaturiera già al centro delle dinamiche economiche e ecclesiastiche ADI.
Non sfugga la portata di queste scelte: occorrevano, evidentemente, forze nuove, maggiormente allineate, sia per il governo ufficiale con sede a Roma, sia per quello reale, la cui regia operativa — come già ampiamente argomentato — si è sempre mantenuta ben salda a Napoli.
Vi è, inoltre, un dato procedurale che merita attenta riflessione. Quando Giulio Andreotti incaricò formalmente la medesima Commissione che conduceva le trattative con la Santa Sede per la revisione del Concordato di aprire i negoziati con le ADI, egli stava di fatto accentrando su di sé una materia che, per competenza istituzionale, ricadeva originariamente sotto la giurisdizione del Ministero dell’Interno. Questo passaggio, tutt’altro che secondario, segnala un’anomalia nella prassi costituzionale, che sarà formalmente sanata solo molti anni dopo, con l’entrata in vigore della legge 23 agosto 1988, n. 400 e del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, che riformarono organicamente la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Tutto ciò non fa che rafforzare l’impressione che le trattative tra lo Stato e le ADI, lungi dall’essere il frutto di un percorso neutro e istituzionale, siano state gestite fin dall’inizio all’interno di logiche extra-ecclesiastiche, dove alleanze politiche, reti familiari, poteri economici e influenze esoteriche hanno giocato un ruolo non marginale. (torna su)
6. Come documentato da A. Iovino nel volume Alfonso Melluso: il giovane saggio del pentecostalismo italiano (GBU, 2014, p. 69), il primo presidente delle Assemblee di Dio in Italia, Umberto Nello Gorietti, operava inizialmente come agente di commercio nel settore calzaturiero, alle dipendenze di Salvatore Anastasio. Questo incarico lo portava frequentemente da Roma a Napoli, dove era situata l’allora piccola impresa artigianale di calzature gestita dallo stesso Anastasio. Fu proprio in questo contesto che, nel 1933, grazie alla testimonianza del suo agente di commercio, poi divenuto amico personale, S. Anastasio abbracciò la fede pentecostale, divenendo il primo credente pentecostale della città di Napoli. A lui seguirono i cognati Melluso e D’Alessandro, gettando così le basi per la nascita del primo nucleo pentecostale napoletano.
Un ruolo decisivo in questa fase embrionale fu svolto da Addolorata Anastasio, sorella minore di Salvatore e figura carismatica all’interno della compagine aziendale, nonché socia del giovane Alfonso Melluso. Tuttavia, colpita da una grave forma tumorale, si spense prematuramente nel 1961. Dopo la sua morte, i figli di Addolorata — ritenuti non sufficientemente esperti o strategici per la nuova visione industriale dell’impresa — vennero progressivamente estromessi dalla gestione aziendale, in un processo di ridefinizione interna che portò al consolidamento del controllo da parte del ramo familiare Melluso.
I ruoli chiave furono così assunti da Daniele Melluso e Pasquale D’Alessandro, fratelli minori di Alfonso, i quali nel frattempo avevano fondato una seconda realtà produttiva insieme a Pasquale Melluso, padre di Alfonso e cognato di Salvatore Anastasio. Da quel momento, il marchio e la gestione dell’impresa principale passarono sotto il controllo esclusivo della famiglia Melluso, mentre i discendenti di Addolorata furono, con garbo ma in modo definitivo, esclusi dal grande circuito industriale.
I figli di Salvatore Anastasio, per parte loro, diedero vita autonomamente al noto marchio calzaturiero «Starlet», contribuendo anch’essi allo sviluppo del settore in ambito locale e nazionale.(torna su)
7. Alla stima complessiva di un milione e mezzo di euro (1.500.000 € circa) si è giunti mediante una ricostruzione documentata basata su dati economici ufficiali del periodo. Si tratta, tuttavia, di un calcolo molto prudenziale perché in realtà si giungerebbe a oltre i 3 milioni di euro. Nel primo semestre del 1947, il tasso di cambio tra il dollaro statunitense e la lira italiana era stabilito a circa 350 lire per dollaro. In quello stesso periodo, lo stipendio medio mensile di un operaio si aggirava attorno alle 11.000 lire, anche se è opportuno ricordare che il divario retributivo tra regioni settentrionali (come Piemonte e Lombardia) e quelle meridionali poteva superare il 50%. Sulla base di tali dati, i calcoli attualizzati portano alle seguenti stime:
Nota metodologica sul potere d’acquisto degli investimenti americani in Italia (1947–1948)
- Cambio medio USD/Lire: 1 $ ≈ 350 lire
- Stipendio medio operaio: 11.000 lire/mese
- Valuta: coesistenza tra lira nazionale e AM-lira (moneta d’occupazione)
- Inflazione cumulata USA (1947–2025): +1.364% (più elevata in Italia)
2. Investimenti documentati delle Assemblies of God USA.
- Roma, via dei Bruzi 9–11: $25.000 × 350 = 8.750.000 lire → ≈ 795.454 mensilità operaie. 795.454 × €1.300 = €1.034.090,20 (potere d’acquisto attualizzato)
- Catania, via Juvara 46: $13.000 × 350 = 4.550.000 lire → ≈ 413.636 mensilità operaie. 413.636 × €1.300 = €537.727,80
- Napoli ?
Totale stimato per difetto: €1.571.818, valore minimo, calcolato per difetto
3. Fluttuazioni valutarie postbelliche (1947–1949)
- Cambio USD/Lire oscillante tra 1 $ = 573–603 lire
- Con tale tasso, l’investimento si rivaluta ben oltre i 2,5 milioni €
- In scenari comparativi (es. immobili, capitale umano), il valore potenziale raggiunge 3 milioni €
4. Metodo di conversione adottato
- Multiplicazione delle mensilità operaie 1947 per uno stipendio medio odierno (1.300 €)
- Indicatore socialmente significativo: riflette la capacità di acquisto reale in beni e servizi durevoli (es. immobili per culto, scuole bibliche, sedi nazionali)
5. Confronto con rivalutazione monetaria USA (inflazione)
- $25.000 (1947) → $556.000 nel 2025 (≈ €511.000)
- Tuttavia, la metrica sociale basata sul salario fornisce una rappresentazione più aderente all’impatto concreto dell’investimento sul contesto italiano del dopoguerra
6. Una stima prudente tra 1.500.000 € e 3.000.000 € è metodologicamente solida se:
- Si adotta un criterio di conversione socio-economico comparato,
- Si tiene conto della depreciation monetaria storica,
- Si considera la funzione moltiplicativa degli immobili religiosi come beni strategici e capitali simbolici a lunga durata.(torna su)
Fonti
- https://www.storiologia.it/tabelle/popolazione06.htm
- https://www.treccani.it/enciclopedia/lira_res-bf4920d3-87ea-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Enciclopedia-Italiana%29/
- https://pure.rug.nl/ws/portalfiles/portal/53088705/gd174.pdf
- https://www.nber.org/system/files/chapters/c12288/c12288.pdf
- https://www.nber.org/system/files/working_papers/w5742/w5742.pdf
Ami la verità?
Unisci i punti e completa il disegno!
Se vi sono dei punti mancanti, cercali. Rimboccati le maniche e scova documenti… perché la storia pentecostale italiana è ancora tutta da raccontare.
Fatevi coraggio, mettetevi all’opera, e il SIGNORE sia con chi è buono (2Cr 29:11)
E non dimenticare mai che:
La verità non si preoccupa se le fai le domande, mentre una bugia non ama essere sfidata
Un sentito ringraziamento ai curatori del blog per la collaborazione nel collage fotografico.
Un raro video d’epoca in cui si vede Henry H. Ness
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