Le radici teologiche del pentecostalismo italiano

Per gentile concessione di F. Chinnici, pubblichiamo questo interessante articolo.

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Negli ultimi anni si è assistito, anche in Italia, alla pubblicazione di testi e articoli che, sotto il pretesto di offrire una ricostruzione storica delle origini pentecostali, veicolano in realtà una visione teologica semplificata, ideologicamente orientata e storicamente infedele. Tali narrazioni tendono a presentare il movimento pentecostale come diretta espressione del metodismo holiness di matrice americana, ignorando o marginalizzando le sue radici autoctone, la sua matrice battista e riformata, la sua ecclesiologia non denominazionale e la varietà teologica che ne ha contraddistinto la prima ora.

Non si tratta semplicemente di approcci parziali, ma di vere e proprie operazioni di riscrittura retroattiva, finalizzate a legittimare, a posteriori, derive dottrinali e assetti ecclesiastici che nulla hanno a che vedere con l’esperienza originaria dei pionieri italiani. In questo quadro si colloca anche la recente diffusione del volume di Donald W. Dayton, Theological Roots of Pentecostalism, che, se da un lato si presenta come un contributo accademico, dall’altro promuove una genealogia univoca e confessionale escludendo ogni alternativa non allineata alla prospettiva holiness-wesleyana. Una tesi non solo parziale, ma — come attestato da studiosi di primo piano quali Allan Anderson, William W. Menzies, Cheryl Bridges Johns, Amos Yong, Edith Blumhofer, Grant Wacker, Darrin Rodgers e Daniel Ramirez — anche teologicamente fallace e storiograficamente fuorviante.

Alla luce di ciò, s’impone una domanda ineludibile: quali furono, in realtà, le radici teologiche del pentecostalismo italiano? A questo interrogativo si propone di rispondere il presente contributo, evidenziando almeno quattro matrici spesso ignorate o deliberatamente occultate, ma essenziali per comprendere l’identità profonda, teologica e storica, del movimento pentecostale italiano.

1. La prima radice: Francescon, Lombardi, Ottolini…

William H. Durham (1873-1912), pastore battista riformato che portò il messaggio pentecostale ai pionieri pentecostali italiani L. Francescon, G. Lombardi, P. Ottolini, ecc.

Il messaggio pentecostale giunse in Italia attraverso l’opera di emigrati italiani stabilitisi negli Stati Uniti. Tra i protagonisti di questa prima irradiazione spirituale si distinguono le figure di Luigi Francescon, Giacomo Lombardi, Pietro Ottolini e Lucia Menna. Chi erano costoro? Quale formazione teologica avevano ricevuto? E quale visione ecclesiale professavano?

Tutti questi pionieri provenivano dalla «Chiesa Presbiteriana Italiana» di Chicago guidata dal pastore valdese Filippo Grill (1874–1939). Essi dunque avevano assimilato l’intero impianto dottrinale presbiteriano, erede della tradizione calvinista e influenzato dal risveglio valdese. Filippo Grill, a sua volta allievo del teologo Paolo Geymonat, esponente del movimento di risveglio tra i valdesi, si era formato presso l’École Libre di Ginevra, e trasmetteva una visione teologica fortemente radicata nei principi della Riforma: ispirazione plenaria delle Scritture, esperienza di conversione personale, dottrina della predestinazione e struttura ecclesiologica congregazionalista, in cui l’autonomia della comunità locale prevaleva su ogni forma denominazionale.

Nell’aprile del 1907, Luigi Francescon entrò in contatto, a Chicago, con William H. Durham, pastore di formazione battista riformata che aveva ricevuto il battesimo nello Spirito Santo con il segno delle lingue e ne era divenuto convinto predicatore. La sua predicazione esercitò un’influenza dirompente nel Midwest statunitense tale da acquisire un ruolo di primo piano, persino più influente al risveglio di Azusa Street, e contribuì in modo decisivo alla diffusione pentecostale nell’Est degli Stati Uniti. Durham, oratore di straordinaria efficacia, sosteneva con forza due capisaldi teologici: la dottrina della predestinazione e la “Finished Work of Calvary”, l’opera perfetta e compiuta da Cristo nel Calvario, che rigettava la visione wesleyana della santificazione come seconda esperienza successiva alla conversione.

Fu nella sua missione della North Avenue di Chicago che Francescon, la moglie Rosa, Dora Di Cicco, Pietro ed Emma Ottolini e Giovanni Garrou ricevettero l’esperienza pentecostale. Già costituitisi come «Comunità evangelica italiana indipendente» in seguito alla loro uscita dalla Chiesa Presbiteriana di Grill per motivi legati al battesimo in acqua per immersione, essi unirono alla loro matrice soteriologica calvinista la teologia della Finished Work, fondata su Giovanni 19:30, che afferma la piena efficacia dell’opera redentrice di Cristo: il credente è giustificato e santificato simultaneamente, senza necessità di una “seconda benedizione”. Questa santificazione, iniziata al Calvario, è progressiva (1 Corinzi 1:2), ma non è da intendersi come una tappa ulteriore, bensì come il naturale dispiegarsi di un’opera già compiuta.

Durham, inoltre, rifiutava ogni forma di denominazione ecclesiastica, che considerava — per usare le sue stesse parole — «il più grande ostacolo all’avanzamento della causa di Gesù Cristo». Questo stesso spirito ispirava Francescon e i suoi collaboratori: il pentecostalismo delle origini era per sua natura congregazionalista, libero, anti-istituzionale, e fondato esclusivamente sulla Scrittura.

Sono queste, dunque, le autentiche radici teologiche del pentecostalismo italiano: radici che affondano prima nella Chiesa Presbiteriana Italiana di Chicago e poi nella predicazione battista, riformata e pentecostale, di William Durham. Un’eredità calvinista, autoctona e genuina, che ha forgiato l’identità spirituale delle prime comunità pentecostali italiane, ben prima della nascita delle ADI.

A differenza di altri contesti nazionali, il pentecostalismo italiano nacque da italiani per italiani, e fino al 1947 si mantenne indipendente da influenze denominazionali straniere. È solo con l’intervento di Frank B. Gigliotti ed Henry H. Ness in collaborazione con le Assemblies of God statunitensi, che ha inizio quella che può essere definita, senza retorica, una vera e propria «colonizzazione teologica» per interessi geopolitici legati all’atlantismo e al sionismo: un processo di trasformazione dottrinale e organizzativa che culminerà nella fondazione delle Assemblee di Dio in Italia (ADI).

Le ADI diventeranno, infatti, lo strumento principale di diffusione in Italia del sistema dottrinale arminiano e dispensazionalista delle AoG americane — in netta antitesi con le convinzioni calviniste dei pionieri. Non è un caso che Luigi Francescon, sentendosi tradito da questa svolta, non rispose mai alla lettera inviatagli nel 1948 da Umberto N. Gorietti, primo presidente delle ADI. E quando, nel 1958, il giovane Francesco Toppi tentò di incontrare Francescon a Chicago tramite l’Anziano (il titolo di «pastore» era aborrito e sarà introdotto in Italia da Henry H. Ness) Nicola Di Gregorio, la risposta fu negativa: Francescon aveva deciso di non avere più contatti con chi l’aveva tradito dando vita a una struttura denominazionale, arminiana e dispensazionalista.

Alla luce di questi fatti, è legittimo affermare che la fondazione delle ADI rappresenti una rottura teologica e storica con il pentecostalismo delle origini: un distacco dalle proprie radici, e l’inizio di quella «colonizzazione pentecostale americana» che fino ad allora era rimasta ai margini del movimento italiano. Parlare dunque di «radici calviniste del pentecostalismo italiano» non è una forzatura, ma una necessaria restaurazione della verità storica. Possiamo parlare, quindi, di un tradimento storico e teologico delle origini.

2. La seconda radice: Alfredo Del Rosso

La seconda radice teologica del pentecostalismo italiano si collega al Risveglio del Galles, ma mantiene anch’essa un tratto autoctono e indipendente. Protagonista di questa linea è Alfredo Del Rosso, che, venuto a contatto con l’esperienza pentecostale, intraprese inizialmente dei timidi rapporti epistolari con le Assemblies of God americane, per poi indirizzarsi decisamente verso la Chiesa Apostolica della Danimarca e della Gran Bretagna, preferendo un’impostazione ecclesiologica differente da quella statunitense.

Del Rosso, pur avendo ricevuto una formazione iniziale in ambito valdese, apparteneva per convinzione teologica alla tradizione battista riformata, e quindi, come gli altri pionieri del paragrafo precedente, condivideva un’impostazione congregazionalista e calvinista, in linea con l’ecclesiologia locale e la dottrina della sovranità della grazia.

Da questa seconda radice sorgeranno la «Chiesa Apostolica in Italia», la successiva «Chiesa Apostolica Italiana» e una costellazione di realtà ecclesiali ad esse collegate, accomunate dalla convinzione che il governo della Chiesa debba fondarsi sui cinque ministeri di Efesini 4:11. Va tuttavia precisato che tale struttura, concepita originariamente per essere applicata in forma locale e autonoma, subirà col tempo una mutazione sostanziale, degenerando progressivamente in una forma di verticalismo gerarchico, via via che le esigenze organizzative e il consolidamento denominazionale ne ridefiniranno i contorni.

3. La terza radice: Maria G. Malan

La terza radice del pentecostalismo italiano affonda nel mondo valdese, che all’inizio del Novecento attraversava una fase di profonda crisi spirituale, innescata da un acceso conflitto interno tra due visioni teologiche antitetiche: da un lato l’approccio liberale, influenzato dalla teologia moderna, e dall’altro la corrente dei cosiddetti «risvegliati», che auspicavano un ritorno all’esperienza viva della fede. Questo clima di inquietudine, segnato da un diffuso scoraggiamento, spinse numerosi valdesi alla ricerca di un rinnovamento spirituale più autentico.

In tale cornice si colloca la visita, nel 1891, di Charles Taze Russell, fondatore della Watch Tower Society, che si recò a Pinerolo (Torino) per incontrare il pastore valdese Daniele Rivoire. Sebbene quest’ultimo non aderì mai formalmente ai Testimoni di Geova, accettò di tradurre in italiano gli scritti di Russell, facilitando così l’ingresso della loro dottrina sul suolo italiano. Questo episodio testimonia la tensione spirituale dell’ambiente valdese di fine Ottocento, in cui diverse sensibilità cercavano risposte fuori dagli schemi tradizionali.

È in questo contesto che alcuni valdesi del ramo risvegliato entrarono in contatto con le prime manifestazioni del pentecostalismo, allora ancora privo delle strutture e delle deviazioni teologiche che lo caratterizzano oggi. Tra questi spicca la figura di Maria Guglielmina Malan, che ho recentemente definito, in un articolo inviato al Comitato Scientifico del blog Storia Pentecostale, come «la prima pentecostale d’Italia». La sua esperienza carismatica precedette di alcuni mesi l’arrivo in Italia di Luigi Francescon e Giacomo Lombardi, e costituisce, a buon diritto, il nucleo generativo di una corrente pneumo-carismatica minoritaria, radicata nell’ambito valdese “risvegliato” ma in dialogo con il nascente movimento pentecostale.

4. La quarta radice: Unitarianismo

Una quarta radice, sebbene minoritaria e controversa, è rappresentata dalla corrente modalista o unitariana del pentecostalismo, impropriamente nota come movimento del «Solo Gesù» (Oneness Pentecostalism). Tale orientamento teologico, che nega la distinzione personale tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, affermando una manifestazione unitaria di Dio nel nome di Gesù, giunse in Italia nei primi anni Sessanta del Novecento, suscitando non poche reazioni per il suo carattere teologicamente difforme rispetto alla pneumatologia classica.

Su questo specifico tema, ebbi modo di dedicare una dissertazione oltre venticinque anni fa presso l’Istituto Biblico Italiano (I.B.I.), in un periodo in cui, sul territorio nazionale, scarseggiavano del tutto contributi critici o informativi in merito. Tale lavoro è stato in seguito citato dal prof. Massimo Introvigne, sebbene non vi sia mai stato tra noi alcun contatto diretto né personale. Va osservato, a margine, che la citazione conteneva un errore di trascrizione del mio cognome, dettaglio che suggerisce una trasmissione indiretta del testo.

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RIFLESSIONI CONCLUSIVE

In conclusione, l’analisi delle radici del pentecostalismo italiano mostra con chiarezza come, ad eccezione della corrente unitariana, esse conducano tutte — in modo diretto o mediato — al mondo valdese e, più in generale, a una matrice riformata. Pur non essendo mai confluite in un unico movimento organico, queste diverse correnti condividono tratti dottrinali essenziali e comuni:

  • La glossolalia (con espressioni di xenoglossia nei primi decenni);
  • Il netto rifiuto della struttura denominazionale in favore di un impianto congregazionalista;
  • Una soteriologia chiaramente calvinista, radicata nella dottrina della grazia sovrana e nella predestinazione biblica.

Vi sono inoltre altri elementi distintivi che contraddistinguono il pentecostalismo delle origini da quello attuale: l’assenza della dottrina delle «due fasi del ritorno di Cristo» e del «rapimento segreto», l’inconsistenza della cosiddetta gap theory, la concezione non monocratica del ministero pastorale. Tutti elementi oggi largamente diffusi ma assolutamente estranei alla teologia dei pionieri.

Queste, in estrema sintesi, sono le radici teologiche del pentecostalismo italiano. Qualunque tentativo di reciderle per innestare un’origine wesleyana si configura come un’operazione storiografica inaccettabile, una forma di appropriazione indebita della memoria teologica del movimento. Non si tratta di opinioni soggettive: si tratta di fatti documentati, inequivocabili, attestati da fonti storiche primarie. Negarli equivarrebbe a sostenere che il bianco è nero: un’assurdità epistemologica.

La soteriologia wesleyano-metodista non appartiene al DNA del pentecostalismo italiano delle origini. Insistere nel farlo derivare da quella matrice, appoggiandosi su episodi secondari — come il fatto che Francescon si convertì durante una predicazione di Michele Nardi — significa travisare i dati storici. Nardi, infatti, non fu mai pentecostale, né Francescon fu mai suo discepolo. Al contrario, Luigi Francescon proveniva dalla Chiesa presbiteriana italiana di Chicago, di cui era stato anziano-segretario, carica che presupponeva l’adesione, la sottoscrizione, alla dottrina riformata. La stessa dottrina che egli ritrovò nel pentecostalismo di William H. Durham, da cui ricevette il messaggio pentecostale.

Pentecostalismo OGM

OGM.jpgÈ indubbio che una teologia arminiana, di matrice wesleyana, abbia fatto il suo ingresso nel pentecostalismo italiano — ma solo in un secondo tempo. Fu l’arrivo in Italia di Henry H. Ness nel 1947, insieme alla strategia di colonizzazione delle Assemblies of God americane (AoG), a introdurre questo cambiamento. Tale influsso si estese ben oltre le ADI, raggiungendo anche chiese indipendenti e altri raggruppamenti, spesso per una sorta di riverenza teologica nei confronti dell’autorità americana. A ciò si aggiunse l’opera missionaria della Church of God (Cleveland, Tennessee), che diede origine alla «Chiesa di Dio in Italia», espressione dichiaratamente wesleyana, ancora oggi sostenitrice della santificazione come “seconda opera della grazia” — una dottrina del tutto assente, si badi, nell’impianto teologico delle ADI e della quasi totalità delle chiese pentecostali italiane.

Artic oli di fede
A sinistra gli artt. di fede delle “Assemblee di Dio in Italia” e a destra quelli della “Chiesa di Dio in Italia”. Dal loro confronto emerge facilmente la differenza in merito alla santificazione come seconda opera di grazia del tutto assente negli artt. di fede delle ADI.

 

Inoltre, come si può conciliare, in coscienza, un’impostazione dispensazionalista cessazionista e arminiana con l’essenza stessa dell’esperienza pentecostale, che proclama l’attualità e la sovranità dei carismi spirituali? L’arminianismo pentecostale, che eleva a dogma l’onnipotente “libero arbitrio” — concetto estraneo alla Scrittura e mutuato piuttosto dalla filosofia pagana e dal pensiero massonico — crea un cortocircuito teologico. Si tratta, in effetti, di un ibrido incompatibile: un organismo teologicamente modificato.

Questa “mutazione genetica” del pentecostalismo italiano si realizza compiutamente nel 1947, con la nascita delle ADI per mano di Henry H. Ness e Frank B. Gigliotti. A partire da quell’anno, numerose dottrine estranee al patrimonio originario iniziarono a essere introdotte gradualmente. Dottrine che i pionieri non solo non condividevano, ma che spesso rigettavano con forza.

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L’articolo di “Cristiani Oggi” nel quale F. Toppi scrive che Francescon si rifiutò di incontrarlo nel 1958

Ecco perché si può legittimamente parlare di «Pentecostalismo OGM». Con la fondazione delle ADI, il pentecostalismo italiano fu geneticamente modificato: divenne altro rispetto a ciò che era stato alle origini. Certo, alcune forme esteriori irrilevanti per i progetti geopolitici atlantici e sionisti sono rimaste (l’uso del velo, il saluto con la «pace»), ma la sostanza teologica è profondamente mutata.

Che tale mutazione sia stata un progresso o un’involuzione può essere oggetto di discussione. Ma che essa vi sia stata è un dato oggettivo e innegabile. Le ADI esercitarono — e tuttora esercitano — un’influenza determinante su tutta la teologia pentecostale italiana, anche al di fuori del proprio perimetro istituzionale. La colonizzazione americana, se non fu amministrativa, fu senza dubbio teologica, con tutte le implicazioni etiche e pratiche che ne derivarono.

Basti pensare a tre nomi chiave: Maria Arcangeli, Paolo Arcangeli e Francesco Toppi. Furono loro a plasmare l’identità teologica delle ADI, e, per riflesso, a influenzare l’intero pentecostalismo italiano. Ma dove si formarono? A quali istituzioni si affidarono? Chi ne guidò la formazione? Non è un dettaglio secondario il fatto che gli studi teologici di tutti e tre furono finanziati da realtà pentecostali straniere che nutrivano precisi interessi geopolitici nella penisola di carattere atlantista e sionista. Emblematico è il caso di Maria Arcangeli, prima studentessa biblica pentecostale italiana, inviata a studiare nel college fondato e diretto da Henry H. Ness, che ne sostenne personalmente i costi. In ciò si manifesta compiutamente il successo dell’operazione di colonizzazione culturale e teologica concepita da Frank B. Gigliotti e Henry H. Ness: un progetto strategico, attentamente orchestrato, che raggiunse appieno i propri obiettivi.

Nella seconda metà degli anni Ottanta, forse resosi conto dell’evidente scollamento tra le radici teologiche del pentecostalismo italiano e l’impianto dottrinale importato dalle Assemblies of God americane, Francesco Toppi — storico presidente delle ADI — intraprese un’opera di recupero memoriale. In quella stagione, sulla rivista Cristiani Oggi, allora a cadenza quindicinale, comparvero articoli e monografie dedicati alle figure fondative del risveglio pentecostale italiano: Luigi Francescon, Giacomo Lombardi, Lucia Menna, Pietro Ottolini, Menconi, ecc. Le intenzioni sembravano sincere: restituire dignità a una genealogia che per decenni era stata rimossa, se non addirittura rimodellata, secondo esigenze apologetiche e funzionali al nuovo assetto confessionale. In filigrana, si poteva cogliere un impulso di ravvedimento, forse tardivo e altresì frenato (forse) da logiche superiori; ma comunque indicativo di una coscienza inquieta.

In quelle pubblicazioni, Francesco Toppi sembrava voler ricucire il legame spezzato tra il pentecostalismo italiano e le sue autentiche origini: quelle anteriori alla penetrazione ideologica delle Assemblies of God, compromesse — come attestato da documentazione storica — con ambienti massonici, atlantisti e sionisti. Un’impresa senza dubbio nobile nelle intenzioni, ma giunta troppo tardi: la frattura con le radici fondative era ormai teologicamente consolidata e strutturalmente radicata. Eppure, proprio in quella stagione, alcuni giovani pastori — incoraggiati da quelle timide riaperture memoriali — iniziarono ad approfondire con rigore le origini dottrinali del pentecostalismo italiano. Fu il segnale, ancora flebile ma significativo, che qualcosa, seppur lentamente, stava tornando alla luce. A riprova del clima di quegli anni, mi limito a un semplice dato emblematico: durante i miei studi presso l’Istituto Biblico Italiano, il docente del corso «Teologia Propria 2» — Salvatore Cusumano — adottava come manuale di riferimento la Teologia sistematica del calvinista Louis Berkhof. Un fatto che oggi potrebbe sorprendere molti, ma che conferma come il risveglio riformato in realtà ha sempre fatto parte del DNA pentecostale italiano se onestamente riconosciuto.

Ma il nodo rimaneva insoluto. Da un lato, Toppi sembrava sinceramente animato dal desiderio di rendere onore alla memoria dei pionieri del risveglio; dall’altro, non voleva — e, con ogni probabilità, non poteva — rinunciare al paradigma arminiano su cui si era nel frattempo strutturata l’identità ufficiale della denominazione. Fu così che, a metà degli anni ’90, si trovò costretto a tentare una riconnessione artificiosa tra le radici dottrinali del pentecostalismo italiano e il filone wesleyano, costruendo una rilettura retrospettiva che cercava, vanamente, di tenere insieme ciò che storicamente e teologicamente non poteva essere conciliato. Come nel sogno della statua di Nabucodonosor non si potevano fondere il ferro e l’argilla, così era impossibile unire l’arminianismo denominazionalista delle ADI al pentecostalismo riformato, spontaneo e anti-denominazionale delle origini. Le sue tesi apparivano fragili, forzate, e — sotto il profilo storiografico — evidentemente strumentali.

Parlo con cognizione di causa: in quel periodo ero molto vicino a lui. Non si trattava di un’operazione accademica, ma di un gesto presidenziale, teso a contenere il fermento dottrinale che stava maturando all’interno delle stesse ADI. Un numero crescente di pastori iniziava infatti a riscoprire, con rigore esegetico e spirito di fedeltà biblica, la soteriologia riformata professata dai pionieri del movimento. Il centro nevralgico di questo risveglio teologico era rappresentato da Nazzareno Ulfo, allora pastore delle comunità ADI di Caltanissetta e San Cataldo, figura di rara profondità spirituale e intellettuale, animata da spirito di conciliazione e da intenzioni tutt’altro che divisive come gli venne attribuito in seguito.

E tuttavia, in un contesto ecclesiale ancora segnato dal timore dello scisma, ogni dissenso dottrinale veniva percepito come potenziale minaccia. Così, la priorità di Francesco Toppi non fu quella di approfondire onestamente la ricerca storica, bensì di tutelare l’unità della denominazione. Egli scelse di sacrificare l’oggettività sull’altare della stabilità istituzionale, e non poteva essere diversamente: era il presidente, non lo storico.

Ma proprio questo gesto conferma, se ce ne fosse bisogno, che la frattura c’è stata, e che il pentecostalismo italiano ha subito — con la fondazione delle ADI — una trasformazione genetica irreversibile, che solo una seria operazione di verità potrà, forse, un giorno ricomporre.

Note

Nota 1

È doveroso precisare — benché dovrebbe risultare evidente al lettore attento — che, trattandosi di una nota di natura divulgativa e non di uno studio specialistico, termini quali «calvinismo», «arminianismo», «liberale» e «risvegliato» sono qui impiegati nella loro accezione più ampia e generale, senza pretesa di rigore teologico-dogmatico.

Nota 2

La “Congregação Cristã no Brasil” («Congregazione Cristiana in Brasile»), fondata nel 1910 da Luigi Francescon, conserva tuttora la fede nella dottrina dell’elezione e nel ritorno visibile di Cristo e rapimento della Chiesa dopo la grande tribolazione e prima del Millennio. Essa rifiuta la dottrina delle due fasi del ritorno del Signore e quella del rapimento segreto, così come rigetta la concezione wesleyana della santificazione quale seconda opera della grazia. Professa invece una santificazione che ha inizio al momento della conversione, a prescindere dall’esperienza del battesimo nello Spirito Santo, che si manifesta con il segno biblico delle lingue.

Nota 3

I pionieri del pentecostalismo italiano credevano nell’elezione dei santi non soltanto perché provenivano dalla Chiesa presbiteriana italiana di Chicago — in cui Luigi Francescon ricopriva un ruolo centrale come braccio destro del pastore Filippo Grill, predicando spesso in sua vece — ma anche perché ricevettero il messaggio pentecostale da William H. Durham, pastore della North Avenue Mission di Chicago, anch’egli riformato. Questi uomini, colmi del desiderio di conoscere l’amore di Dio e di ricevere la potenza dall’alto, non si addentravano in dispute filosofiche tra calvinismo e arminianismo: essi credevano nella predestinazione dei redenti semplicemente perché la leggevano con chiarezza nelle pagine del Nuovo Testamento, e in questo soltanto. Molti ritengono che fu proprio questa loro semplicità — unita a una certa ingenuità e bisogno economico (uscivano dalla guerra che aveva portato miseria) — a rendere possibile l’opera di seduzione condotta da Henry H. Ness, rappresentante delle Assemblies of God statunitensi, il quale persuase diversi conduttori italiani ad abbandonare l’originario anti-denominazionalismo per aderire alla nuova struttura organizzativa delle Assemblee di Dio in Italia, fondate nel 1947. Fu da quel momento che si avviarono, in modo graduale e sottile, alcune mutazioni dottrinali, tra cui l’introduzione di una soteriologia di tipo arminiano con l’enfasi, teologicamente problematica, sull’onnipotente «libero arbitrio», concetto estraneo alla Scrittura e derivato piuttosto da fonti filosofiche pagane. Va ribadito con forza: i pentecostali delle origini credevano nell’elezione secondo il proponimento eterno di Dio, non per astratta speculazione dottrinale, ma perché persuasi dalla semplice e diretta lettura della Bibbia, loro unico e insostituibile codex. Il documento che segue potrebbe essere considerato una sintesi fedele del credo dei primi pentecostali italiani.

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Per un approfondimento si consiglia la lettura del libro “Dio Salva tutti gli Uomini? Esiste un Libero Arbitrio?”, sempre dello stesso autore e fruibile gratuitamente nel nostro blog.

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Siamo un gruppo di giovani ricercatori interessati alla storia del Movimento Pentecostale che si avvale anche del supporto specialistico di storici. A differenza di testi di storia pentecostale scritti da pentecostali stessi o da massoni conniventi con le principali denominazioni, l’obiettivo di questo sito è presentare invece una storia del movimento pentecostale seria e obiettiva scevra da pregiudizi fideistici e/o denominazionali sulla base di fatti effettivamente documentati. Per farlo seguiremo di seguire i fatti da un punto di vista cronologico calandoli nel loro contesto storico e sociale. Non mancheranno la pubblicazione di documenti inediti che aiuteranno a gettare luce sul fenomeno squisitamente storico sul Movimento pentecostale.
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