Wesleyani contro Pentecostali: nemici per vocazione

© di Filippo Chinnici – Tutti i diritti riservati –

Perché la verità esige memorie non (de)formate

Premessa

Pur avendo, per grazia o per necessità, orientato il corso della mia vita verso altri lidi, avrei volentieri lasciato ai mestieranti dell’editoria il monopolio del silenzio complice o della parola addomesticata. Ma, quando la verità viene oltraggiata e la storia manipolata con la nonchalance tipica di chi gioca a dadi col passato, il dovere della coscienza impone di tornare alla penna.

Non già per vanagloria o accademica ostinazione, ma per amore della verità — quella verità che non si lascia irretire né da logge né da logiche. E poiché il revisionismo storico oggi marcia baldanzoso sotto le insegne di Giancarlo Rinaldi, divenuto araldo (non troppo discreto) di una storiografia confessionale forgiata in fucine massoniche, non posso esimermi dal rispondere. Tanto più che le Chiese Cristiane Evangeliche “Assemblee di Dio in Italia” – ADI — a cui sono rimasto affettivamente legato, almeno quelle del tempo di Toppi — oggi paiono accodarsi con zelo degno di miglior causa a tale operazione di anestesia collettiva.

Se dunque la storia dev’essere riscritta, sarà con l’inchiostro della verità. E se occorre levare lo scudo della memoria contro la spada dell’oblio, sia chiaro che vi sono ancora testimoni disposti a difendere ciò che fu, contro ciò che conviene far credere sia stato.

Introduzione

Nel panorama del cristianesimo evangelico moderno, pochi equivoci si sono rivelati tanto perniciosi quanto quello che pretende di far derivare il pentecostalismo dal movimento holiness di matrice wesleyana. Tale costruzione genealogica, divenuta celebre grazie al volume Theological Roots of Pentecostalism (1987) di Donald W. Dayton — tradotto nel 2023 da ADI-Media —, si regge su un presupposto tanto suggestivo quanto storicamente infondato: che il pentecostalismo sarebbe una naturale prosecuzione della santità wesleyana. Ma la realtà storica costringe a una diagnosi ben più severa. Gli esponenti del movimento holiness furono, sin dalle origini, acerrimi oppositori del risveglio pentecostale, tanto sul piano dottrinale quanto su quello ecclesiale. Là dove uno confessa la potenza di Dio che salva nella sovranità della grazia, l’altro proclama un perfezionismo antropocentrico, erede di una concezione iniziatica dell’ascesi spirituale, più prossima alla gnosi e alla visione etica della massoneria che alla rivelazione biblica. Non è un caso che il caposcuola di tale dottrina, John Wesley, sia stato rivendicato come «entusiasta massone» nella 44ª Comunicazione annuale della Gran Loggia del Canada (1899), dove si attesta la sua iniziazione alla loggia Downpatrick n. 36, in Irlanda, il 30 ottobre 1738 — informazione confermata anche nei Proceedings della Grand Lodge of Kansas (1900–1904, p. 351).


In tale cornice ideologica si colloca oggi l’opera di Giancarlo Rinaldi, autore dichiaratamente wesleyano e Maestro Venerabile della loggia massonica Costantino Nigra del GOI, che si è distinto come uno dei principali promotori di un revisionismo storiografico volto ad attrarre il pentecostalismo italiano nell’orbita dottrinale wesleyana. Tale tentativo, per quanto ammantato di linguaggio accademico, si inserisce in un disegno ben più ampio di rilettura teologica e identitaria, teso a dissolvere le radici riformate e biblicamente fondate del pentecostalismo primigenio per sostituirle con una genealogia sincretica, più adatta al clima postmoderno e transconfessionale del protestantesimo contemporaneo.

1. Divergenze teologiche insanabili: Due visioni inconciliabili

La frattura tra il pentecostalismo nascente e il movimento holiness di ispirazione wesleyana non fu diverbio tra affini, ma scisma tra inconciliabili. Il punto nevralgico fu la concezione del battesimo nello Spirito Santo: secondo la dottrina holiness-wesleyana, esso costituiva una “seconda benedizione” post-conversione, finalizzata alla santificazione interiore e al perfezionamento etico del credente senza il segno del parlare in altre lingue. Per i pentecostali, al contrario, rappresentava un’effusione di potenza dall’alto (cfr. Atti 1:8), attestata visibilmente dalla glossolalia, e finalizzata alla potenza (non santificazione) nella testimonianza, nell’esercizio del ministero della predicazione e nell’esercizio dei doni spirituali (cfr. 1 Corinzi 12), non al miglioramento morale.

Il contrasto non fu terminologico, ma ontologico: due teologie dell’umano e del divino fondamentalmente inconciliabili. La visione holiness, erede di Wesley, faceva perno sull’ascesi e su un’etica della perfezione; quella pentecostale, invece, si fondava sulla sovranità dello Spirito santo, che agisce non secondo meriti o preparazioni, ma secondo il proprio beneplacito: «non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia» (Romani 9:16). Il battesimo nello Spirito santo non è una promozione etica, ma una manifestazione gratuita e sovrana della grazia divina.

Allan Anderson ha evidenziato che, mentre il movimento holiness rimaneva per lo più legato a una cultura revivalista e metodista statunitense, il pentecostalismo sin dai primi anni si aprì a influssi afroamericani, restaurazionisti, riformati e perfino anglicani, distaccandosi progressivamente dalla matrice holiness-wesleyana. Fu una rottura culturale prima ancora che dottrinale.

Amos Yong, dal canto suo, ha mostrato come la pneumatologia pentecostale non solo rovesci l’ordine ascetico della santificazione holiness, ma riformuli radicalmente la relazione tra Spirito santo e soggetto: là dove il paradigma holiness si fonda sulla crisi morale individuale, il pentecostalismo genera un’esperienza collettiva, ecclesiologicamente generativa, in cui lo Spirito santo distribuisce i carismi come Egli vuole per l’edificazione della Chiesa (1 Corinzi 12:11).

Sebbene nei primi anni si siano condivisi alcuni termini — «seconda benedizione», «santificazione» — comuni al lessico holiness, il pentecostalismo ne sovvertì rapidamente l’impianto teologico. Ciò che nell’etica wesleyana era inteso come perfezionamento morale divenne, nel risveglio pentecostale, δωρεά (dōreá) divina: dono gratuito, sovrano, disceso dall’alto, senza mediazione ascetica né condizionamento etico. Il lessico fu momentaneamente condiviso, ma la sintassi teologica risultò rivoluzionaria.

Il pentecostalismo trasfigurò i presupposti del il revival holiness, generando una nuova visione dello Spirito santo: non più “opera interiore” in vista della perfezione etica, ma potenza che abilita, distribuisce, trasforma e manda.

2. Demonizzazione e anatema: la reazione holiness

Lungi dall’accogliere con spirito fraterno il risveglio pentecostale, i principali esponenti del movimento holiness di orientamento wesleyano reagirono con crescente ostilità, culminata in anatemi espliciti e in vere e proprie campagne di demonizzazione. Il caso più emblematico è quello di Alma White, fondatrice della Pillar of Fire Church, che nel suo virulento libello Demons and Tongues (1910) attribuì il parlare in lingue a fenomeni di possessione demoniaca. William B. Godbey, figura molto influente nell’ambiente holiness, descrisse i pentecostali come «negromanti», «giocolieri dello spirito» e «emissari di Satana», accusandoli di spiritismo e seduzione occulta.

Tale retorica non fu isolata. Riviste holiness come God’s Revivalist, The Apostolic Evangel e The Way of Faith documentano in modo sistematico un’ostilità crescente nei confronti dei fenomeni pentecostali associati al risveglio di Azusa Street. Le esperienze spirituali pentecostali venivano regolarmente derise come manifestazioni di isteria, autosuggestione o inganno diabolico. Le testimonianze dirette di glossolalia, visioni e guarigioni furono liquidate come forme di fanatismo o disturbi psichici incompatibili con il «vero spirito di santificazione».

Come ha osservato Walter J. Hollenweger, questa reazione non può essere rubricata come semplice divergenza teologica: fu piuttosto una «persecuzione ecclesiologica», motivata non da errori dottrinali oggettivi, ma da paure profonde, strutturali e sistemiche. Le resistenze si articolarono almeno su tre piani:

  1. Dottrinale: il pentecostalismo presentava una teologia esperienziale e non codificata, difficilmente controllabile da organismi confessionali centrali;
  2. Antropologico-ecclesiologico: l’accesso diretto allo Spirito — con segni tangibili — non richiedeva la mediazione clericale né l’approvazione di sinodi, minando così il monopolio sacrale delle leadership holiness;
  3. Socioculturale e razziale: la matrice afroamericana del risveglio — incarnata da figure come William Seymour — spezzava gli equilibri della cultura bianca protestante, costruita su codici morali e sociali ben definiti.

Il pentecostalismo fu dunque percepito non come una variante interna da discernere, ma come un corpo teologico spurio da espellere. La sua teologia del dono, del segno e della potenza infrangeva il rigore morale e ascetico del paradigma holiness wesleyano, introducendo nel culto elementi di spontaneità, inclusività e corporeità che venivano letti come sovversivi. In un contesto segnato da tensioni etniche e confessionalismi rigidi, il nuovo movimento appariva come una minaccia all’ordine ecclesiale esistente, e fu trattato di conseguenza.

Il risultato fu una campagna di espulsione liturgica e disciplinare: il linguaggio usato non fu solo retorico, ma performativo. Definire «demoniche» le esperienze pentecostali significava di fatto scomunicarle in via preventiva, negando ogni possibilità di discernimento ecclesiale. Come in tutte le crisi carismatiche della storia del Cristianesimo, la paura prevalse sul confronto e l’istituzione reagì con la scomunica anziché con l’ascolto.

3. Epurazioni e scomuniche: la macchina dell’esclusione

La violenza simbolica si fece presto prassi ecclesiale: il movimento holiness di matrice wesleyana mise in atto un vero e proprio sistema di epurazione disciplinare, volto a neutralizzare ogni influenza pentecostale al suo interno. I pentecostali furono espulsi dalle chiese locali, rimossi dagli incarichi pastorali, esclusi dai seminari, ignorati nelle riviste confessionali e denigrati pubblicamente come elemento destabilizzante per l’ordine dottrinale e la coesione ecclesiale. Le esclusioni non furono episodi sporadici, ma segni di un dispositivo istituzionale attivato con puntualità e rigore.

Le dichiarazioni ufficiali emesse tra il 1906 e il 1920 da diverse denominazioni holiness — come risulta da verbali sinodali, statuti dottrinali e atti disciplinari — bollavano sistematicamente il movimento pentecostale come «eretico», «sovversivo», «pericoloso per la stabilità della Chiesa» e «fuori dalla sana dottrina». Tali formule non erano meri giudizi teologici, ma strumenti giuridici di scomunica preventiva, volti a impedire ogni forma di contaminazione spirituale.

La Pentecostal Church of the Nazarene, che all’origine portava con sé l’ambiguità di un’identità composita, nel 1919 eliminò deliberatamente l’aggettivo «Pentecostal» dalla propria denominazione, segnando una presa di distanza definitiva dal glossolalismo e dal nuovo movimento carismatico. La Fire-Baptized Holiness Church, fondata in seno al metodismo radicale, dichiarò incompatibile la dottrina delle lingue con la propria confessione di fede e procedette alla scomunica formale di numerosi membri “simpatizzanti”.[1]

Simili rotture si verificarono anche in altre realtà holiness, come la Free Methodist Church e la Church of the Brethren, le quali, nei loro atti ufficiali e nelle corrispondenze pastorali, si opposero apertamente a qualsiasi forma di cooperazione con le nascenti comunità pentecostali. Alcune di queste dichiarazioni, pubblicate su riviste come The Christian Witness e The Holiness Advocate, parlavano esplicitamente di «nuovo fanatismo da contenere» e «malattia spirituale contagiosa».

Il quadro che emerge è quello di una frattura irreparabile, non tra scuole teologiche divergenti ma tra due ecclesiologie inconciliabili: da un lato, un sistema disciplinare fondato sulla codificazione della santità e sul controllo liturgico; dall’altro, un’esperienza carismatica fluida, egualitaria, comunitaria, aperta alla spontaneità e alla corporeità del culto.

Il pentecostalismo, dunque, non fu tollerato come ramo estremo del medesimo albero holiness, ma venne trattato come corpo estraneo da estirpare, con una damnatio memoriae in atto già nei primi anni. I suoi leader furono esclusi dai pulpiti, le sue comunità isolate, i suoi convertiti derisi e avvertiti come devianti.

Tutto ciò avveniva mentre nelle baracche di Azusa Street o di Chicago si testimoniava l’unità dello Spirito oltre ogni barriera razziale, sociale o confessionale. L’unità esperienziale del culto pentecostale — fatta di canti, lingue, preghiere corporali, pianti e risa — contrastava con l’etica sorvegliata del pietismo bianco, che vedeva nella liturgia un luogo di controllo, e non di abbandono.

Per molti leader holiness, ciò che veniva messo in discussione non era solo un articolo di fede, ma l’intero impianto soteriologico della santificazione: un processo progressivo, eticamente orientato e istituzionalmente presidiato. Il pentecostalismo, con la sua irruzione improvvisa dello Spirito santo, rappresentava una rottura epistemologica e cultuale. Più che una dottrina diversa, era un modo alternativo di essere Chiesa, irriducibile all’ordine esistente e, per questo, sistematicamente rigettato.

4. Una nascita nella contrapposizione: il pentecostalismo si costrusci «contro»

Le prime denominazioni pentecostali non sorsero come rami maturi del movimento holiness di matrice wesleyana, ma come frutti inaspettati di una cesura drammatica e polemica. Le Assemblies of God USA (1914), la Church of God in Christ, la Pentecostal Assemblies of the World, la Church of God (Cleveland, TN), e numerose altre realtà consimili non nacquero all’interno del movimento holiness, bensì in reazione al suo rigetto: furono il risultato ecclesiale di un’espulsione teologica.

Le loro Costituzioni iniziali non replicavano i linguaggi della santità metodista, ma ne decostruivano la premessa fondativa: non più una progressiva purificazione morale, bensì una sovrana effusione dello Spirito, gratuita, non media, non subordinata a stadi di perfezionamento etico.

Il pentecostalismo fu, in senso proprio, una creatura dell’esilio. Non fu il frutto maturo di una dottrina sviluppata, ma l’evento scaturito da una crisi pneumatologica. In termini teologici, fu una rottura epistemologica: non l’aggiunta di un’esperienza alla dottrina holiness, ma una ridefinizione del rapporto tra Dio e l’uomo nella storia, fondata su una teologia dell’immediatezza carismatica. Fu generato non dalla continuità, ma dall’espulsione; non dall’adozione di un paradigma, ma dalla sua messa in crisi.

Come osserva Amos Yong, «il pentecostalismo è il prodotto della marginalizzazione». Ma proprio in quella marginalità, esso trovò la sua forza: non come ramo cadetto del pietismo wesleyano, ma come luogo teologico alternativo, dove la potenza dello Spirito sfondava le recinzioni disciplinari, dando voce a soggettività escluse — afroamericane, povere, non istruite, spesso femminili — ignorate dai circuiti della santità ufficiale.

Per molti storici contemporanei — da Grant Wacker a Daniel Ramirez — questa cesura non fu solo ecclesiale, ma culturale e liturgica: mentre il mondo holiness cercava ordine, sobrietà e controllo emozionale, il pentecostalismo apriva alla spontaneità, alla corporeità, alla manifestazione visibile del soprannaturale. I linguaggi erano diversi, ma le epistemologie erano opposte.

Il pentecostalismo si costituì quindi come alterità costruttiva, ma irriducibile: non una variazione sul tema, bensì un paradigma pneumatico nuovo, nato dalla frattura, radicato nella memoria degli esclusi e animato da un ethos carismatico non sistematizzabile. Mentre il perfezionismo holiness erigeva barriere disciplinari, il pentecostalismo celebrava la grazia come evento disarmante e non negoziabile.

Fu generato dal rifiuto, ma legittimato dall’effusione. E in quella effusione — non nei documenti conciliari, ma nel fuoco del culto — si costituì come Chiesa dei margini, capace di parlare lingue nuove non solo nel senso glossolalico, ma nella capacità di creare un nuovo alfabeto ecclesiologico.

5. Le critiche accademiche alla genealogia di Dayton

Nel suo volume Theological Roots of Pentecostalism (1987), Donald W. Dayton propone una genealogia che collega il pentecostalismo al movimento holiness di matrice wesleyana, sostenendo che il primo sia una naturale evoluzione del secondo. Tuttavia, questa tesi è stata oggetto di critiche da parte di numerosi studiosi, che ne contestano la linearità e la riduzione della complessità storica del pentecostalismo.

Allan Anderson, nel suo An Introduction to Pentecostalism, sottolinea che le origini del pentecostalismo sono molteplici e interconnesse, includendo influenze afroamericane, riformate, anglicane e restaurazioniste. Egli evidenzia come la liturgia orale afroamericana, la corporeità devota e la spiritualità incarnata abbiano avuto un ruolo decisivo nella formazione del pentecostalismo, elementi che si discostano significativamente dalla struttura etico-ascetica del metodismo wesleyano.

Walter J. Hollenweger ha ulteriormente rimarcato il carattere plurale, orale e non sistematico della spiritualità pentecostale, ben lontana dalla logica etica-progressiva del movimento holiness. Egli ha mostrato che la spiritualità pentecostale si struttura come una tradizione profetica e comunitaria che sfugge alla sistematizzazione teologica, rendendo problematica ogni pretesa genealogica dogmatica.

Amos Yong ha invece denunciato l’eurocentrismo implicito nella lettura di Dayton, che tende a ridurre la variegata esperienza carismatica globale a una derivazione occidentale standardizzata. Yong propone una pneumatologia fondamentale che riconosca l’azione dello Spirito Santo in contesti culturali differenti, superando la rigidità dei modelli confessionali ereditati dall’Occidente protestante.

Grant Wacker, nel suo Heaven Below (2001), ha mostrato come molti dei pionieri pentecostali americani non provenissero affatto da ambienti holiness, bensì da contesti battisti, presbiteriani e indipendenti. Scrive:

«Molti tra i primi pentecostali avevano radici teologiche nel protestantesimo riformato piuttosto che nel metodismo perfezionista; parlavano il linguaggio dell’esperienza, ma conservavano una soteriologia della grazia».

Frank D. Macchia, nel suo Baptized in the Spirit (2006), ha reinterpretato il battesimo nello Spirito come evento escatologico e comunitario, non come coronamento della perfezione individuale. Per Macchia, l’effusione pentecostale non perfeziona l’ascesi, ma rovescia le categorie di merito e progresso spirituale, sostituendole con una pneumatologia della sovranità e della sorpresa. Il pentecostalismo non affina il perfezionismo: lo travolge.

A questa costellazione di studi si aggiunge il fondamentale contributo di Daniel Ramirez, il quale, analizzando la genesi delle comunità pentecostali tra gli italoamericani (Francescon, Ottolini) e i messicani negli Stati Uniti, ha dimostrato come molte di esse si svilupparono in ambienti riformati e non holiness, spesso in aperto dissenso dalla dottrina perfezionista della “seconda benedizione”, considerata estranea alla Scrittura e alla propria esperienza ecclesiale.

Darrin Rodgers, direttore dell’archivio ufficiale delle Assemblies of God USA, ha documentato come il movimento del Finished Work di William H. Durham — da cui provennero anche i fondatori del pentecostalismo italiano — nacque esplicitamente in rottura con il paradigma holiness, affermando la sufficienza dell’opera compiuta da Cristo e rigettando la santificazione come crisi successiva alla conversione. Per Durham, la santificazione era compresa come realtà posizionale e progressiva, non come esperienza morale immediata, segnando così un netto distacco teologico dal perfezionismo wesleyano.

Anche sul piano accademico, la Wesleyan Theological Society — fondata nel 1965 come organo del pensiero holiness — ha continuato per oltre un decennio a difendere sistematicamente il perfezionismo etico della “seconda benedizione”, come risulta dai primi numeri del Wesleyan Theological Journal (1966–1975). Pur senza condanne esplicite, le posizioni espresse tracciano un chiaro confine dottrinale rispetto alla pneumatologia pentecostale, escludendo implicitamente ogni convergenza con la dottrina del Finished Work.

Sotto il profilo metodologico, la proposta di Dayton trasforma la complessità in linearità, il dissenso in continuità, la rottura in evoluzione. Sotto il profilo retorico, adotta una forma apparentemente inclusiva, ma sottende un modello gerarchico e assimilazionista: invece di riconoscere la polifonia, ne propone un monologo.

Affermare che il pentecostalismo “proviene” dal movimento holiness non equivale a spiegarne le dinamiche, ma a risolverle arbitrariamente in un’unica matrice: una sorta di dogma storiografico travestito da analisi. Al contrario, una storiografia onesta deve riconoscere che il pentecostalismo non si sviluppò in continuità con il metodo holiness, ma in dissenso da esso, attingendo anche a fonti soteriologiche estranee al perfezionismo metodista. La sua genealogia fu un crocevia di rigetti, una costellazione di divergenze — non una linea retta.

A distanza di quasi quarant’anni dalla sua pubblicazione, il volume di Donald W. Dayton risulta, per ammissione implicita della stessa critica accademica globale, parziale, datato e teologicamente riduttivo, superato da decenni di ricerca transdisciplinare che hanno mostrato la natura plurale, diasporica e poligenetica del pentecostalismo. Eppure, ciò che lascia sgomenti — e che impone una denuncia lucida e intransigente — è che a tradurlo e pubblicarlo in italiano nel 2023 siano state proprio quelle Assemblee di Dio in Italia che, senza l’opera pionieristica di Luigi Francescon, Pietro Ottolini e del primo nucleo raccolto attorno a William H. Durham a Chicago, non esisterebbero neppure.

Non si tratta qui di un semplice atto editoriale, ma di un gesto simbolico di auto-rinnegamento, che segna il passaggio da una memoria vissuta e incarnata a una costruzione ideologica retroattiva, utile a normalizzare la nuova identità che hanno plasmato i massoni e agenti dei servizi segreti Henry H. Ness e Frank B. Gigliotti, ma incapace di onorare la verità storica. Tradurre Dayton equivale a canonizzare la visione ecclesiologica di coloro che rifiutarono e perseguitarono il risveglio pentecostale, e a cui i pionieri italiani opposero una fede fondata non sulla perfezione etica, ma sulla potenza dell’opera compiuta di Cristo e sulla libertà sovrana dello Spirito santo.

Così, le ADI, nate dal dissenso e dall’esilio ecclesiologico, decidono oggi di allinearsi ai modelli teologici degli espulsori: la chiesa che fu generata dal rigetto viene ammaestrata dai suoi inquisitori. L’ecclesiologia carismatica dei padri viene sostituita da una genealogia artificialmente holiness-centrica, negando nella prassi editoriale ciò che i fondatori proclamarono nello Spirito.

È difficile immaginare una forma più solenne e silenziosa di abiura teologica. Non si è pubblicato un libro: si è seppellita una memoria!

Holiness vs pentecostalism

6. Chi erano i veri nemici?

Lo disse Gesù stesso: «Un nemico ha fatto questo» (Mt 13:28). E oggi come allora, non è difficile riconoscerlo. Gli esponenti del movimento holiness di impronta wesleyana furono tra i primi e più accaniti inquisitori del pentecostalismo nascente. Ne denunciarono la spiritualità, ne ridicolizzarono la teologia, ne criminalizzarono la prassi con un vigore che tradiva non solo dissenso dottrinale, ma rigetto esistenziale di un’esperienza spirituale non controllabile né codificabile.

Ridurre tale ostilità a semplici «divergenze interne» significa ignorare la portata storica del trauma ecclesiale che ne seguì. Le reazioni holiness non furono né episodiche né marginali, ma sistematiche e strategiche: colpirono il pentecostalismo proprio là dove esso fondava la propria identità — nell’esperienza diretta dello Spirito, nella frattura con le mediazioni istituzionali, nella riscoperta del soprannaturale come prassi di comunità.

È dunque storiograficamente insostenibile attribuire al movimento holiness la paternità di ciò che combatté con ogni mezzo disponibile. Il pentecostalismo nacque nell’opposizione, attraverso l’esclusione, come fenomeno eretico agli occhi del pietismo morale dominante. Ma proprio in quella marginalità trovò la sua forza: nella fragilità divenne profetico, nella diaspora divenne universale.
Non fu figlio del metodo, ma della potenza. Non erede del moralismo, ma dell’effusione. Non continuazione di una genealogia devota, ma manifestazione dello Spirito Santo al di là di ogni sistema preordinato.

Fu la libertà sovrana dello Spirito santo — non una dottrina codificata — a generare il pentecostalismo: una libertà che scavalcava i recinti denominazionali, le ortodossie moralistiche, le liturgie del perfezionismo. In questo senso, esso non fu un ramo ben potature di un tronco già noto, ma una nuova fioritura carismatica, sbocciata ai margini del giardino, dove i sistemi avevano smesso di guardare.

Conclusione: incompatibilitas theologiae et praxis

Unire holiness e pentecostalismo è come voler conciliare Lutero e Trento, o Giobbe e i suoi amici: là dove uno parla di grazia, l’altro parla di merito. Là dove uno confessa la potenza di Dio che agisce nella grazia sovrana, l’altro promuove un perfezionismo antropocentrico che, nella sua struttura dottrinale, rivela tratti di natura esoterico-massonica, risultando più affine alla gnosi iniziatica che alla rivelazione biblica della salvezza.

Ab uno disce omnes: da un errore metodologico si riconoscono tutti gli altri. Dayton, per sostenere una genealogia comoda, cancella l’anatema, omette l’esclusione, ignora il trauma. Ma la memoria dei perseguitati non può essere sequestrata dai posteri.

Il pentecostalismo non fu il frutto maturo di un unico ceppo dottrinale, ma il punto di convergenza di esperienze eterogenee, spesso lontane tra loro per radici storiche e orientamento ecclesiologico. Alla sua genesi contribuirono, in misura differente ma significativa, l’impulso profetico delle chiese afroamericane, l’ethos soteriologico delle tradizioni riformate, la sacramentalità residuale di ambienti anglicani e l’anelito primitivista dei movimenti restaurazionisti. Fu un crocevia carismatico, non una continuità dottrinale; un’esplosione spirituale, non una sintesi sistematica. In tale orizzonte, la matrice holiness — di per sé già frastagliata e contraddittoria — fu solo uno degli attori sulla scena, e non il regista. Attribuire ad essa la paternità esclusiva del pentecostalismo equivale a distorcere la partitura per privilegiare un solo strumento. La melodia dello Spirito, invece, si levò da più voci e da più lingue.

Note

  1. La Fire-Baptized Holiness Church, fondata nel 1896 da Benjamin Hardin Irwin, ha radici profondamente ancorate nel metodismo wesleyano. Irwin, inizialmente affiliato alla Wesleyan Methodist Church, sviluppò la dottrina del “battesimo di fuoco” come terza esperienza di grazia, successiva alla conversione e alla santificazione.

Bibliografia essenziale

▪️Anderson, Allan. An Introduction to Pentecostalism: Global Charismatic Christianity. Cambridge: Cambridge University Press, 2004.

▪️Anderson, Allan. To the Ends of the Earth: Pentecostalism and the Transformation of World Christianity. Oxford: Oxford University Press, 2013.

▪️Dayton, Donald W. Theological Roots of Pentecostalism. Grand Rapids, MI: Francis Asbury Press, 1987.

▪️Fire-Baptized Holiness Church. Constitution and General Rules of the Fire-Baptized Holiness Church. Royston, GA: Live Coals Press, 1905.

▪️Godbey, William B. Spiritualism, Devil-Worship and the Tongues. Cincinnati, OH: God’s Revivalist Press, s.d.

▪️Hollenweger, Walter J. Pentecostalism: Origins and Developments Worldwide. Peabody, MA: Hendrickson Publishers, 1997.

▪️Macchia, Frank D. Baptized in the Spirit: A Global Pentecostal Theology. Grand Rapids, MI: Baker Academic, 2006.

▪️Nicandro, Patrizia. Il risveglio pentecostale. Dalla semplicità dell’Evangelo alla complessità dell’organizzazione. Storie, controstorie e derive settarie. Roma: AltroMondo Editore, 2024.

▪️Ramirez, Daniel. Migrating Faith: Pentecostalism in the United States and Mexico in the Twentieth Century. Chapel Hill: University of North Carolina Press, 2015.

▪️Rodgers, Darrin J. The Assemblies of God: God’s Spirit at Work Since 1901. Springfield, MO: Gospel Publishing House, 2006.

▪️Synan, Vinson. The Holiness-Pentecostal Tradition: Charismatic Movements in the Twentieth Century. Grand Rapids, MI: William B. Eerdmans Publishing Company, 1997.

▪️Wacker, Grant. Heaven Below: Early Pentecostals and American Culture. Cambridge, MA: Harvard University Press, 2001.

▪️Wesleyan Theological Society. Wesleyan Theological Journal. Marion, IN: Wesleyan Theological Society, volumi 1–10 (1966–1975). ISSN: 0092-4245.

  •   Wilber T. Dayton, “Entire Sanctification as Taught in the Book of Romans”, WTJ, vol. 1, n. 1, 1966.
  •   Articoli vari su perfezione cristiana, santificazione e peccato nel pensiero wesleyano.

▪️White, Alma. Demons and Tongues. Bound Brook, NJ: The Pentecostal Union, 1910.

▪️Yong, Amos. The Spirit Poured Out on All Flesh: Pentecostalism and the Possibility of Global Theology. Grand Rapids, MI: Baker Academic, 2005.

PER APPROFONDIMENTI

Novant’anni di Buffarini-Guidi: Verità storica e mito identitario

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Allegati

    Siamo un gruppo di giovani ricercatori interessati alla storia del Movimento Pentecostale che si avvale anche del supporto specialistico di storici. A differenza di testi di storia pentecostale scritti da pentecostali stessi o da massoni conniventi con le principali denominazioni, l’obiettivo di questo sito è presentare invece una storia del movimento pentecostale seria e obiettiva scevra da pregiudizi fideistici e/o denominazionali sulla base di fatti effettivamente documentati. Per farlo seguiremo di seguire i fatti da un punto di vista cronologico calandoli nel loro contesto storico e sociale. Non mancheranno la pubblicazione di documenti inediti che aiuteranno a gettare luce sul fenomeno squisitamente storico sul Movimento pentecostale.
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